Dal libro: Il Vescovato alifano nel Medio Volturno;
Edizioni ASMV – Piedimonte Matese, 1979
di Dante B. Marrocco
Presentazione
Questo lavoro era riservato alla Bibliotheca Ecclesiarum Italiae, per designazione di mons. Raffaele Pellecchia vescovo di Alife, e sarebbe uscito nel volume Campania. Per la morte del cesenate Mario Burchi, animatore e coordinatore dell’opera monumentale, è rimasto giacente per vari anni. Ripreso a tratti dal ’74, vede ora la luce nel momento della rinascita della chiesa alifana.
Altra intenzione era di trattare insieme i quattro vescovati del Medio Volturno. Per il momento esce alle stampe solo.
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Il metodo seguito è rigorosamente critico. Critica però non significa necessariamente demolizione e rifiuto.
Per lo scrivente è giudizio obiettivo che affianca la tradizione, e la sostiene fin quando è possibile. Quando non lo è più, diventa chiarificazione, qualche volta coraggiosa, dei fatti, interpretazione di essi nella ricerca di quanto è effettivamente avvenuto. Una obbiettività indipendente che esclude l’apologia per sistema, come la negazione ed il rifiuto per pregiudiziale. L’indagine si basa sul documento.
Spesso adopero la parola leggenda. Sia chiaro una volta per tutte che leggenda non è fiaba. Questa è una composizione inventata di sana pianta, quella è l’amplificazione non provata di fatti realmente avvenuti.
Il lavoro non presenta grandi novità documentarie.
La dispersione dell’archivio del vescovo e della cattedrale, avvenuta a ripetizione nel 1138, nel 1456, nel 1561, e nel 1688 ad Alife, nel 1675 a Sant’Angelo, nel 1799 a Piedimonte, ha ridotto notevolmente il risultato dell’indagine. Una più vasta e razionale conoscenza di fatti e persone è venuta dall’archivio segreto Vaticano, dagli archivi degli ordini religiosi in Roma, da nuove opere di storia ecclesiastica, ed anche da archivi locali.
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Ho dato importanza alla «compartecipazione» dei vari agonisti, e non ho posto in luce solo il protagonista.
Da alcuni, ad esempio Ughelli, la storia della diocesi viene trattata sotto il nome del vescovo, quasi che tutto derivasse da lui. Ora, guardando solo la cima si perde di vista la base: una folla anonima su cui agisce un capo. Ma ecclesia non è una riunione di spettatotri che ascoltano un monologo fatto da un solo attore. È assemblea, e ciè partecipazione attiva di tutti i convenuti.
E non è partecipazione stupidamente livellata, ma articolata e resa responsabile dal posto che si occupa, nella gradazione di uffici. Anche trattando una piccola diocesi non possono essere trascurati i tre elementi aristotelici della società:
il capo (monarchia), il vescovo,
il gruppo dirigente (aristocrazia), il clero,
il popolo (democrazia), il laicato.
Quel che ha fatto ognuna delle tre componenti l’ho trattato come fatto da ognuna di esse, e non come derivato dal capo.
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Quel che mi ha spinto a trattare la storia del Medio Volturno anche nel campo ecclesiastico, è stata la ricchezza di notizie. Sono tali e tante che non dovevano perdersi, tanto più che molte di esse escono dal campo strettamente ecclesiastico, e confluiscono nella storia generale. Non ci si meravigli se, dopo aver trattato la guerra nel Medio Volturno, ora tratto la chiesa. Sono argomenti assai diversi, ma io li considero due capitoli di grande interesse nella storia così varia della vallata volturnese.
Piedimonte Matese, natale del precursore 1979.
Dante B. Marrocco
Si ringrazia:
– per le ricerche di Archivio:
mons. Vincenzo Cinotti, mons. Francesco Corsini, prof. Giuseppe Leone, mons. Raffaele Ricigliano, mons. Francesco Piazza;
– per le fotografie:
Marcellino Bianchi, Nicola Caprarelli, mons. Vincenzo Cinotti, ing. Pietrangelo Gregorio, Aurelio Martino (copertina), Salvatore Riselli, e l’I.G.M. di Firenze per la cartina;
– per le correzioni:
il dott. Rosario Di Lello.
Capitolo I – Origine e vicende del Vescovato
Origine del vescovato. – La prima questione da affrontare è quella dell’origine. Dobbiamo analizzare alcune notizie leggendarie.
Il Medio Volturno è una vallata fra l’Appennino e il Preappennino che, durante l’Impero romano, si trovava divisa proprio dal fiume fra la prima regione italica Latium et Campania, e la quarta Samnium. Il territorio era collegato alla via Appia da varie traverse, ed era solcato da una diramazione della via Latina, che a Benevento si collegava pure sull’Appia.
Il riferimento a s. Pietro che sarebbe stato in Alife è leggendario.
Nel primo secolo però la predicazione evangelica è passata sull’Appia (i vescovi s. Fotino a Benevento e s. Prisco a Capua), e non è assurdo pensare che si sia fatta sentire sulle diramazioni. Su questa notizia si fonda l’altra, secondo cui, a ricordare il passaggio di s. Pietro, l’antica cattedrale era dedicata a lui.
Altra notizia sulla presenza del Cristianesimo in Alife viene dal martirologia beneventano: una famiglia alifana residente a Roma era cristiana. Si tratta di sette fratelli e di s. Felicita loro madre, martirizzati a Roma nel 131, ma è contrastata dalla storia religiosa romana e dalla critica. (Si veda il capitolo sui culti speciali).
Che a metà del secolo VI il Cristianesimo fosse già da tempo diffuso nel Medio Volturno, ce lo assicura un cenotaffio trovato nel territorio che in seguito si denominerà di San Gregorio Matese. Erano morti a breve distanza di tenpo tre fanciulli, Inportuna, di otto anni, sette mesi e 15 giorni, il 18 Agosto 553, Honesta, il 13 Giugno, a sei anni e sette mesi, e Decoratus il 13 Agosto, di cinque anni, tre mesi e 11 giorni. Ai tre fratellini fu eretto questo cenotaffio:
QUIS NON DOLEAT AUT QUIS NON LUGEAT SUPER VOS RERUM HOC TANTUM SCELUS N LXCII DIES TRES DULCES Nos FILIOS OBTULISSE DO VE NOBIS FILII OMNI PIETATE DULCISSIMI AMANTISSIMI CARISSIMI PIISSIMI NUNC QUID FACIENTES TANTORUM DOLORUM IGNO RAMUS NISI VESTRO TUMULO SATISFACTO IDEO QUAE ROGANTES ET DICENTES PER DEUM VIBUM ET ILLUM DIEM IUDICII, NI QUIS HOC INFANTIUM MOLESTET IN TUS MONUMENTUM HIC REQe IN P INPORTUNA QUAE VI AN VIII MEN VII D XV DEP IN PAC XV KAL SEPTEMB DUODEC PC BASILI V C IND PRIMA HONESTA AN VI M VII DEP ID JUN XII PC SS IND PRIMA DECORATUS VIXIT ANN V MEN III + DI XI DEP ID AUG XII PC SS IND PRIMA SS TRES GERMANI FF QUI HIC REQUIESCUNT CHRISTIANI EFFECT.
Primo a riportarla fu il vescovo Augustin che la disse trovata «in Pedemonte al casal di San Gregorio sopra il castello». La lapide, introvabile, sta a testimoniare un fatto già avvenuto da due secoli: la diffusione del Cristianesimo, ma nulla dice sull’origine.
I versi leonini, rimati a metà verso:
Vita salus mundi, pax, gloria, spesque secundi
a vitiis munda, fusis baptismatis unda.
che, secondo Ughelli, stavano collocati all’ingresso del vescovato, non vanno oltre il secolo XII.
La documentazione comincia nel V secolo, coi primi vescovi storici. Se non esistesse la lapide tombale di Severo, e se Claro non avesse sottoscritto le conclusioni del concilio romano del 499, la storia del vescovato arretrerebbe al decimo secolo.
Titolo del vescovato. – In qualche documento si allude al vescovato di s. Pietro, episcopatum santi Petri. Il fatto è che nei documenti del 1020, riguardanti la causa col monastero di Cingla, appare dedicato a s. Maria: Nos Vitus Domini gratia pontifex episcopatus sancte Dei genitricis e t virginis Marie, sancte sedis Aliphane… È il titolo riportato nella cattedrale nuova.
Quattro secoli e mezzo di vuoto. – Dopo Severo e Claro c’è un vuoto nella successione dei vescovi, fin quando non si arriva a Paolo (seconda metà del secolo X). Ci sta chi pensa – Pagi, Papebrochio – che la serie dei vescovi sia stata continua, pur essendo perduta la documentazione. Ma i documenti mostrano il contrario.
Da premettere che nei secoli IX-X erano ben novanta i vescovati vacanti in Italia, a causa dello spopolamento, e delle invasioni saracene. Dalla lettera di Papa Giovanni VIII all’Imperatore Carlo il Calvo appare la situazione tragica delle piccole diocesi. Pare che Alife, già nel 502-504 non avesse vescovo; e si tenga presente che fu distrutta nell’865, 874 e 943.
Alcuni documenti portano prove indirette. In quegli anni molte donazioni vengono fatte a chiese, ma il vescovato di Alife non è mai nominato:l’anno 815, Alahis dona suoi possessi in Alife a Giosuè abate di S. Vincenzo al Volturno; l’anno 841 Majone, gastaldo di Telese, dona una curtis in Alife a Montecassino; mentre altre carte, per corollario, mostrano la povertà della mensa vescovile, appena ricostituita nel 969-70, cui il conte Audoaldo dona diritti e possessi.
Altri documenti portano prove dirette. Il martirologio beneventano, riguardo alla traslazione dei sette fratelli, la dice avvenuta: Gregorii IV Romani Pontificis, et Ursi beneventani episcopi authoritate; la Cronaca volturnese (libro IV) assicura che nel 949, S. Salvatore di Alife, era stata esentata dal vescovo di Benevento; e ogni testimone doveva giurare: Scio quod monasterium sancti Salvatoris de Alife libere fuit factum ab episcopo beneventano, et Palatium (il governo) illud subdidit sancto Vincentio. E nella definizione del placito, nel Gennaio 950, ne venne che il monaco preposto al monastero doveva essere nominato dall’abate non dal vescovo di Benevento.
Dunque nell’839 e nel 949-50, il vescovo di Benevento (e non era arcivescovo metropolita) funzionava in Alife non come vescovo di Alife o amministratore (cosa allora inesistente), ma come vescovo di Benevento, e perciò il vescovato locale non esisteva.
Cattedrale ed episcopio. – L’antica cathedralis sorse probabilmente sul tempio di Giunone. In molte parti il Cristianesimo sostituì la devozione alla Madre degli Dei con quella alla Madre di Dio, tanto più che in Alife Giunone pare fosse al Tutelare, ed avesse un tempio importante, officiato da un collegium di sacerdoti. Pare che l’edificio pagano, poi cristiano, sorgesse sul quarto S. Pietro, presso l’angolo delle mura fra porta Piedimonte e Porta Roma. È probabile che accosto avesse la residenza del vescovo.
La cattedrale attuale sorse fra gli anni 1132-35. Non si sa però dove sorgesse l’episcopio.
Nel 1561 il vescovo si trasferì a Piedimonte. Causa prossima fu la dispersione della popolazione in seguito a saccheggio, ma causa durevole fu la malaria. Secondo Ughelli (VIII, col. 291) il vescovo sta a Piedimonte ob alliphani aeris inclementiam, residere Episcopus solet.
Prima residenza piedimontese fu una casa di fitto al palazzo De Clavellis alle Coppetelle (oggi giardino Burragato Ricca), a poca distanza dall’antica Collegiata di S. Maria.
Il vescovo Seta comprò una casa alla Crocevia (strumento del notaio Michele Perrotta, 4 novembre 1611) da Violante d’Errico, con annesso orto e canapina. Spese per l’acquisto ducati 420, ed altri 1000 per lavori. L’università di Piedimonte contribuì con 300 ducati a fondo perduto, purché il vescovo e i suoi successori si fossero impegnati a risiedere a Piedimonte (la somma fu restituita nel 1779). Ampliamenti a questa residenza furono ordinati dai vescovi Porfirio e Gentile. Il vescovo Puoti atterrò quanto avevano costruito i predecessori, e al primo piano fece fare più stanze e la loggia sul giardino.
Ma anche Alife rivolle una residenza per il vescovo.
L’arcidiacono Macchiarelli lasciò la sua abitazione in via Castello a questo scopo. Distrutta dal bombardamento americano del 13 ottobre 1943, la casa fu ricostruita fuori le mura, in località Jardino. Il 29 agosto 1949, il cav. Pasquale Vessella donava 2.000 metri quadrati, e l’arch. Giulio Roisecco dell’Università di Roma, progettò l’attuale palazzo eseguito coi danni di guerra.
A Piedimonte intanto tutto veniva accentrato nel seminario. Per interessamento del ministro G. Bosco, il Governo nel 1963, dava L. 49.000.000, e si costruiva un secondo piano. L’episcopio alla Crocevia veniva fittato per scuole.
Primo ristabilimento della diocesi e diritto metropolitico di Benevento. – Il 26 maggio 969, Papa Giovanni XIII, avendo concesso a Landolfo vescovo di Benevento l’uso del pallio, lo elevò ad arcivescovo, con facoltà di consacrare i vescovi suffraganei, dove già erano stati: in locis in quibus fuerant; i vescovi sarebbero rimasti sotto il suo controllo di metropolita, qui vestra subjaceant ditioni. Fra i vescovati, al decimo posto sta Alife. Ecco un’altra prova della lunga vacanza del vescovato: ubi olim fuerant, dove una volta erano stati.
Pure con diritto metropolitico furono ristabiliti i confini della diocesi quando, l’anno 985, l’arcivescovo Alfano di Benevento, consacrando Vito vescovo di Alife, assegnava i confini. Si riporta l’essenziale: «Alfanus archiepiscopus, clero ordini et plebi consistenti in Alifis dilectissimis filiis in Domino salutem petentibus, dum me Vitum venerabilem diaconum, quem consacraberat, adque per ipsius sui seriem confirmantes decreberat, Alifanam ecclesiam, ut olim, semper qui habitura cuius episcopatus infra ambitum subsequencium finium perenni iure sine contradiccione sua successorumque suorum ita inviolabiliter haberentur ex una parte fine flubio albente, indeque badit in ipsa Tora, et exiit in ipsos arcus, deinde progrediendo qualiter extenditur in ipsas pilas que stare videbantur juxta flubio Bulturnum, ex alia parte latere montis qui Esere dicitur, ambitus deinde progreditur per serras ipsius montis usque in montem qui Gallus dicitur, deinc per descensum ipsius montis extenditur usque in frabica muri mortui, et per eandem in flubio Bulturno, ex tercia parte luentis ipsius fluminis dirimitur, deinc descendendo per ipsum flubium conjungit se in prioras fines, …».
Il documento è di notevole importanza anche per la toponomastica locale. I confini sono: a Oriente il torrente albente, oggi Arvénto; passa per tora (= selva) e scende al Volturno presso i ruderi di un ponte, pilas, i piloni. A Nord fa da confine il monte Esere, così detto anche oggi in dialetto, stupidamente italianizzato in Esule, la cui vetta è il Miletto, e nel documento s’intende tutta la catena dalla Gallinola fino verso monte Croce di Gallo. Il monte Gallo qui Gallus dicitur attuale sta troppo spostato in territorio ecclesiastico d’Isernia, segno che mille anni fa indicava tutta la montagna intorno a Gallo Matese e non soltanto Favaracchi, il confine attuale. Altro punto di difficile riconoscimento è la fràbica muri mortui, cioè un muraglione a secco, forse protostorico, che dovrebbe stare in basso fra Prata e Fossaceca (oggi Fontegreca). Bisogna cercar bene, da valle dei londri alle cime delle colline su Torcino e Mastrati, il confine occidentale. A Sud il confine segue il Volturno per ipsum flubium. Sono i confini di oggi.
Dopo settecento anni altro documento. Il 14 Aprile 1693, l’arcivescovo Orsini decide di andare di persona, per rendersi conto del ricorso dei canonici che non volevano tornare ad officiare in Alife; e il 15 Agosto 1714, riferisce alla congregazione sinodale di Benevento favorevolmente.
Soppressione della diocesi. – Il 16 febbraio 1818, a Terracina, veniva stipulato il concordato fra S. Sede e Regno delle Due Sicilie, in 35 Articoli. Di essi ci interessa:
«Art. III – Poiché nella Convenzione del 1741 s’era conosciuta la necessità di riunire parecchi piccolissimi vescovati, i cui vescovi non potevano sussistere colla conveniente decenza; e poiché questa riunione, che allora non ebbe effetto, diventa oggidì sempre più necessaria per la decenza delle Mense vescovili; sarà fatta nei paesi di qua dallo Stretto una nuova circoscrizione delle diocesi nei più opportuni modi; e dopo di avere preventivamente richiesto il consenso delle parti in ciò interessate. In questa circoscrizione si procederà avendo a norma direttiva il vantaggio dei fedeli, e soprattutto il vantaggio spirituale. Tra le sedi che non potranno essere conservate, sia a causa dell’estrema tenuità delle rendite, sia per la poca importanza dei luoghi, o per altri ragionevoli motivi, le più antiche e le più illustri verranno serbate per lo meno in titolo, come concattedrali…
Art. VI – Le rendite delle chiese da riuninrsi saranno applicate alle chiese conservate, a meno che i bisogni delle prime non facciano necessaria un’altra ecclesiastica destinazione, che si farà coll’intervento della autorità della S. Sede. I capitoli delle chiese non saranno nella nuova circoscrizione conservati dopo avere preventivamente domandato il consenso degli interessati; saranno convertiti in capitoli di collegiali, e la loro rendita rimarrà quale si trova in questo momento».
Il vescovato alifano non fu annoverto fra gl’illustri ed importanti, e il 27 Giugno 1818 Papa Pio VII ne firmò la bolla di soppressione, s’intende: a morte del vescovo ob eventum illius vacationis. Il Papa diceva di aver consentito per una maggiore utilità della Chiesa DE UTILIORI Dominicae vineae procuratione… invimus cum charissimo in Christo filio nostro Ferdinando regni Utriusque Siciliae Regi illustri…. Aggiungeva di aver consultato i vescovi, e di aver istitutito alcuni nuovi vescovati. Citava i dieci vescovati suffraganei mantenuti a Benevento da ventitré (fra cui Cerretanam et Thelesinam unitas), e concludeva coi vescovati da sopprimere.
Per Alife diceva: Praevia item suppressione episcopalis ecclesiae Aliphanae ex nun pro tunc quando ex persona moderni antistis Aliphani quomodocumque vacare contigerit, civitatem illam ac dioecesim adjungimus ac incorporamus episcopalibus ecclesiis unitis Cerretanae et Thelesinae;…. Il supprimimus, comportava che, dopo quattordici secoli, anche il titolo finiva.
Il 14 Agosto 1818 Re Ferdinando col suo Exequatur, rendeva esecutiva la bolla.
Il dispiacere nel clero e nella popolazione fu sentito e sincero. Ma c’era un filo a cui appoggiarsi, e fu intelligentemente sfruttato. Piedimonte dal 1806 era capoluogo del distretto del Medio Volturno, con ben 46 comuni: se ci stavano tutte le autorità, poteva mancare soltanto il vescovo?
Si lavorò intensamente. Molta parte della corrispondenza è conservata.
Sappiamo così che anzitutto si fecero osservare le distanze: Piedimonte dista da Cerreto ben 12 miglia, e Alife 14; da aggiungere altre 13 per Letino e Valle di Prata senza vie; altre 14 per Prata. Il vescovo vi arriverebbe facilmente? Tutta la popolazione della diocesi unificata ammonta a 53.882 anime. Non sono molte per un vescovo? Le rendite della mensa risultano di ducati 1.868,72, certamente inferiori ai 3.000 previsti dal concordato, ma non proprio niente! Ci sta un fiorente seminario con 80 alunni e rinomati professori. È la fine! A Piedimonte stanno le autorità del distretto (Sottointendente, Giudice distrettuale, Comandante della Gendarmeria, dei Fucilieri e Carabinieri Reali). Chi tratta con loro? Il vescovo solo sta a Cerreto. E le comunicazioni? La posta esterna arriva da Capua il giovedì e la domenica a Piedimonte 8e a Piedimonte quella interna del distretto), e dopo riparte per Cerreto. Di guisa che una comunicazione della Nunziatura a Napoli per Piedimonte, arriva qui, poi va a Cerreto alla curia, poi torna a Piedimonte!…
Interessa una lettera del deputato provinciale Sisto Fiondella al ministro degli Affari ecclesiastici Tommasi: «Tutte le Città e Paesi della Diocesi di Alife sono intorno Piedimonte sede vescovile, in quasi equidistanza di circa miglia dodici. Li bisogni de’ Comarci ne’ mercati settimanali e periodiche fiere in Piedimone, li riunisce colà freqquentemente… (cenno alle autorità). Quindi il sommo vantaggio di riunirsi al capoluogo per tutti li loro bisogni secolari, ivi li offre l’opportunità di soddisfare presso il Prelato e la Curia Vescovile gli molteplici bisogni di loro coscienze e delle Chiese rispettive». Una lettera al Papa fu scritta dai deputati del Capitolo: dopo 43 anni mons. Gentile è stato trasferito, senza essere interrogato! Una lettera simile è indirizzata al Re, e un’altra il 20 Gennaio ’19 pure al Re dal vescovo, che ne ha fatto precedere altre il 20 Giugno ’18 ai cardinali Consalvi e Caracciolo e all’intendente di Caserta. Il 24 Giugno son partite le lettere dei sindaci e dei decurionati di Piedimonte, di Alife e degli altri paesi della diocesi, dei capitoli, degli Alcantarini, e finalmente il 21 Dicembre ecco la lettera del barone Winspeare, regio esecutore del concordato, a mons. Giustiniani esecutore pontificio dello stesso. E il 20 Giugno 1820 ancora una supplica del Capitolo al Re.
Nel 1820 al ministro Tommasi succedeva nel dicastero degli Affari ecclesiastici don Francesco Ricciardi e anche la commissione esecutrice del concordato fu rinnovata.
Secondo ristabilimento della diocesi. – Tanto interesse e sincero movimento ebbe esito positivo. Il 14 Dicembre 1820 Papa Pio VII emanava la bolla Adorandi, con cui ristabiliva la diocesi unita a quella di Cerreto.
Veniva stabilita, a morte del vescovo. Da notare che mons. Gentile morì il 24 Febbraio 1822, perciò soppressione e ripristino rimasero solo nei decreti. In praticaa non avvevvero mai.
Nella bolla la diocesi di Alife veniva unita a Cerreto aeque principaliter, cioè per prima fra uguali. Sarebbero rimaste unite per sempre: perpetuo canonice unitae.
Dunque unione col vescovato telesino, non incorporamento in esso.
L’exequatur fu dato dal Re immediatamente, il 21 Dicembre. E il 17 Gennaio ’21 fu pubblicata in diocesi con grandi feste, dal nunzio apostolico. Il 21 Luglio ci fu la conferma da parte del sovrano.
Dovevano stare in due nella stessa casa. Chi era il primo? Ne vennero polemiche tanto solenni quanto ridicole. Si doveva dire, come diceva la bolla, episcopus thelesinus seu cerretanus ac aliphanus, oppure aliphanus ac thelesinus seu cerretanus?…
Don Giovanni Rossi, uno degli scrittori della Reale Biblioteca Borbonica asserì che il vescovato di Telese è più antico, in quanto nel 465 sottoscrise nel concilio romano di quell’anno il vescovo Fulgenzio telesino, e nel 487 ne era vescovo Agnello, presente al concilio romano in quell’apoca. Ma rispondeva il teologo di Alife don Ottavio Scappaticcio, affermando che quanto a Fulgenzio avevano storpiato Jalesinus (Gallese presso Roma) con thelesinus, e riguardo ad Agnello era un’altra storpiatura, Torcellinus (Torcello e Altino a Venezia) al posto di thelesinus. In Alife invece il vescovato esisteva dal II secolo (…?), e che a Telese il primo vescovo storico è Giberto (1075). Aveva dimenticato S. Palerio!
Nessuno dei due aveva indagato personalmente. Tutto si riduceva a interpretare l’Italia sacra di F. Ughelli, l’unico fino a Eubel che abbia fatto una ricerca fondamentale e insostituibile sui vescovi d’Italia.
Separazione delle due diocesi. – Il 9 Febbraio 1852, Re Ferdinando II visitò Cerreto. Fra le autorità e la popolazione che lo accoglievano con devozione, non vide il vescovo. Gli fu detto che risiedeva sempre a Piedimonte, e intanto coglievano l’occasione per pregarlo di patrocinare presso il Papa la separazione dei due vescovati. Il Re promise.
Papa Pio IX, il 6 luglio ’52 firmava la bolla Compertum Nobis, e la separazione, dopo trentadue anni, era un fatto compiuto. Le ragioni erano quelle del 1820: le distanze illarum sedes procul inter se distantes; località montane alpestribus locis sitae; la separazione motivata anche perché il vescovo avesse più cura del seminario solertiorem, vigilioremque habeat de seminario curam, e soprattutto per il personale interessamento del sovrano che instantissime flagitaverit. I confini erano i precedenti, sebbene riportati con storpiature, per cui monte Capraro a Gallo diveniva Cetraro, e monte Mutri veniva detto Mùtilo.
Il vescovo Di Giacomo, invitato a scegliere fra le due sedi, preferì Piedimonte.
Mons. Ferrieri arcivescovo di Sida i. p. e nunzio apostolico a Napoli, venne ad Alife il 12 Giugno 1853, per dare esecuzione alla bolla. Il cerimoniale interessa perché caratteristico, e perché riporta lo stato del clero: 1) il vescovo tratterà il nunzio come cardinale e legato a latere, 2) si seguirà il cerimoniale pontificale fino a un certo punto, poi quello dei vescovi, 3) alle 9 processione da una casa di sosta alla cattedrale, innanzi alla quale il trono, 4) ingresso, antìfona del s. patrono, lettura della bolla e del decreto, e rogito del notaio Marcellino d’Orsi; 5) il nunzio canterà l’oremus del s. patrono, pregherà per il Papa e per il Re, e darà l’indulgenza e la benedizione, 6) ricevimento e corteo di carrozze con autorità e notabili, alla scafa del Volturno.
Le regioni conciliari. – Il 15 Febbraio 1919 furono istituite le regioni conciliari. La diocesi alifana fu ascritta a quella di Benevento. Ne venne in conseguenza il seminario regionale, inaugurato nel 1933, e i più frequenti convegni dei vescovi.
Cogli articoli 16 e 17 del concordato dell’11 Febbraio 1929 fu prevista la rispondenza della diocesi alla provincia. Ma non fu attuata, ed oggi coll’istituzione delle Regioni, la norma concordataria è praticamente corretta senza ridurre il numero delle diocesi, ma facendo rientrare il loro territorio in quello della regione.
Anche le regioni conciliari sono state riportate a quelle civili.
Le province ecclesiastiche sono: napoletana, beneventana e lucano-salernitana e il vescovo di Alife è divenuto membro dell’episcopato campano, presieduto dall’arcivescovo di Napoli. Papa Giovanni Paolo II ha firmato il decreto il 30 aprile 1979. Dopo 1010 anni ha finito di essere suffraganeo di Benevento!
L’unione con Caiazzo. – È stata chiesta ripetutamente dal clero delle due diocesi e da enti.
Da premettere che anche l’Associazione storica del Medio Voturno, il 29 Settembre 1969, aveva inviato preghiera in tal senso, articolandola su ragioni geografiche, storiche, amministrative e culturali: non si vedeva perché doveva mancare soltanto il vescovo.
Il 23 Maggio 1973, il clero delle due diocesi chiese che cessasse il regime di amministrazione dell’arcivescovo di Capua per Caiazzo, e del vescovo di Caserta per questa diocesi, e che le due diocesi riavessero il vescovo, anche se in comune.
L’unione fu chiesta solo con Caiazzo, e non anche con Cerreto, in base all’art. 16 del concordato del 1929, alle dichiarazioni di Papa Paolo VI del 7 Aprile 1967, e della Commissione Episcopale Italiana. Il territorio delle diocesi doveva combaciare con quello delle province dello Stato. Nel ’76 si è saputo che poteva combaciare col territorio della Regione.
Si poteva iniziare la riunione dei vescovati del Medio Volturno, mantenendo gli antichi titoli. Invece rimane un problema del futuro, l’unificazione ecclesiastica del Medio Volturno.
Attualmente l’unione con Caiazzo non è reale ma personale. Le due diocesi restano distinte in tutto, e solo la persona del prelato è comune. Dalla bolla di nomina di mons. Angelo Campagna a vescovo di Alife, si ricava infatti che il Papa si è mosso a dare il vescovo dietro insistenze: Optantibus Nobis Cathedrali sedi Aliphanae assignare Episcopum…; che lo nominava vescovo di Alife: te nominamus Episcopum Aliphanae Dioecesis. In quella che lo nomina vescovo di Caiazzo è detto: «…te, hoc ipso die Aliphanae Dioecesis Episcopum constitutum, nominamus etiam Episcopum Dioecesis Cajacensis».
La curia. – Tiene a capo un vicario generale. Non è stato possibile ricostruirne la serie. Ce ne sono stati di gran nome, diocesani ed estradiocesani. Fra i primi ricordati è Gian Vincenzo Paterno arciprete di S. Maria Maggiore nel 1582, e Alessandro Perrino nel 1587. Qualcuno nel ‘700 raggiunse anche l’episcopato, come Filippo Sanseverino, vicario negli anni 1752-57. Fu seguito dall’arciprete Trutta. Durante l’800 si fecero notare G. Torti, L. Paterno e L. Cornelio.
Più vicino a noi è stato mons. Ludovico Caso, canonista e oratore.
Al tempo dell’amministrazione del vescovo di Caserta sono stati a capo della curia L. Vaccaro dal 3 Giugno 1967, E. Grillo dal 10 Giugno 1970, e F. Piazza dal 1° Novembre 1975, quali delegati vescovili.
Ogni attività è controllata da un Cancelliere e Notaro. Funzionano l’ufficio amministrativo, l’ufficio catechistico, l’ufficio missionario, l’ufficio tecnico, le commissioni di liturgia e di arte sacra. Pressenti gli esaminatori sinodali. Dal 1968 funziona il Consiglio presbiteriale.
Il tribunale ecclesiastico veniva detto anche «corte laica», e risultava, e risulta, formato dal vescovo che lo presiedeva, dal mastro d’atti o attuario, e da un Officiale difensore del vincolo. Era logicamente competente nelle controversie e per le colpe di ecclesiastici, ma a volte intese giudicare anche casi misti. Aveva sede nell’episcopio.
Nel ‘600 le carceri vescovili erano allogate sotto il campanile di S. Maria Maggiore (vecchia), senza finestre e «comodi». Da metà ‘700 passarono sotto l’episcopio alla Crocevia. Durarono fino al 1860. Si ha notizia di vari arresti dal ‘600 all’800.
Esiste una Cassa sacra (o diocesana). Il 3 Ottobre 1860 il vescovo Di Giacomo dové consegnarla al Gen. Scotti, e il 17 Ottobre ’43 soi suoi valori e titoli, per poco non rimase distrutta dalla caduta del palazzo attiguo all’episcopio alla Crocevia.
Stato degli archivi. – L’archivio della curia, a causa delle distruzioni medevali di Alife, dello spostamento di sede (1561) del saccheggio francese (1799), conserva poco di antico. Il bullarium non va oltre il 1887, e gli atti di s. visita iniziano dal 1955.
Nel 1966 molti pacchi di carte furono mandati al macero alla cartiera locale, e tornarono solo in parte. Ma anche secoli prima, la situazione non era migliore. L’arciprete Trutta scrive che nel 1735, dovendo i canonici di S. Maria Maggiore consultare l’archivio, fecero fare da un notaio una dichiarazione «sul pessimo stato» in cui giacevano i documenti. Non si è potuto ricostruire la serie dei vicari generali.
L’archivio del seminario non è stato più fortunato. Verso il 1955-60 gran quantità di carte fu data alla Croce rossa. Niente da fare per la serie dei rettori.
L’archivio della cattedrale, distrutto varie volte, e in ultimo dal terremoto del 5 Giugno 1688, di documenti più antichi conserva una lettera del vescovo Agustin del 1559, e una bolla di Papa Paolo III del 1561. Le conclusioni capitolari iniziano dal 30 Dicembre 1703. Sta ben ordinato.
L’archivio di S. Maria Maggiore ha subito traversìe nel saccheggio francese del 1799. Il più antico documento che conserva è una pergamena del 1416. le conclusioni capitolari cominciano dal 1635.
L’archivio dell’Annunziata conserva testi di documenti, copiati in volumi, dal ‘600, libri contabili dal ‘500, e le conclusioni capitolari che hanno inizio dal 1625.
L’archivio di S. Croce di Castello non sta ordinato. Vi sono documenti dal ‘500.
Bibl.: Italia pontificia IX 155: quello della curia inizia dal 1206, niente in quello della cattedrale (gli hanno riferito bene?…). Appare necessario un riordinamento generale degli archivi della diocesi, con la catalogazione dei documenti, per consultazione e studio.
Gli archivi parrocchiali tengono i loro principali registri come segue:
| battesimi | matrimoni | defunti | ||
|---|---|---|---|---|
| Ailano | 1700 | 1700 | 1700 (mancano dal 1787 al 1824) | |
| Alife Cattedrale | 1668 | 1669 | 1667 | |
| Alife S. Michele | 1939 | 1939 | 1939 (prima ved. Cattedrale) | |
| Calvisi | 1623 | 1666 | 1666 | |
| Carattano | 1946 | 1946 | 1946 (prima ved. Calvisi) | |
| Castello | 1639 | 1630 | 1695 | |
| Letino | 1818 | 1894 | 1674 | |
| Piedimonte S. Maria Magg. | 1570 | 1635 | 1645 | |
| Piedimonte Annunziata | 1570 | 1642 | 1645 | |
| Piedimonte Sepicciano | 1697 | 1698 | 1697 (prima ved. S. Maria Magg.) | |
| Prata | 1679 | 1835 | 1876 | |
| Prata vecchia | 1940 | 1940 | 1940 (prima ved. Prata) | |
| Pratella | 1801 | 1704 | 1861 | |
| Raviscanina | 1685 | 1705 | 1716 | |
| San Gregorio | 1700 | 1760 | 1803 (stato anime anno 1700) | |
| San Potito | 1697 | 1607 | 1709 (prima ved. S. Maria Magg.) | |
| Sant’Angelo S. M. della Valle | 1605 | 1589 | 1801 | |
| Sant’Angelo S. Nicola | 1895 | 1929 | 1897 | |
| Sant’Angelo S. Bartolomeo | 1639 | 1636 | 1704 | |
| Valle Agricola | 1632 | 1744 | 1744 |
Capitolo II – La serie dei vescovi
La serie dei vescovi inizia storicamente nel quinto secolo. Si interrompe per quattro secoli e mezzo, e ripiglia subito dopo il 969. È possibile che subito dopo Severo e Claro vi sia stato qualche altro vescovo, ma non si sa niente. Vari «anonimi» non hanno sicurezza storica.
La nuova interruzione subito dopo Paolo e Vito, prima di Arechis e Gosfridus è assai strana. Ma fu interruzione?… Se Vito è morto molto dopo il 1020, e Goffredo sedé sulla cattedra già molto prima del 1059, l’interruzione non sussiste. Da ciò le tre lapide degli ultimi vescovi portate nella nuova cattedrale da altrove (dalla vecchia cattedrale diruta?…).
Diamo le notizie raccolte.
1. SEVERO (Severus episcopus).
Il suo nome sta sul rovescio della lapide del calendario alifano: HIC REQuiescit in pace / SEVERUS EPIsCOpus qui vixit annos plus / MINUS L Et sedit annos… menses / VIII DIES V…et depositus est… Si trova al museo di Capua e fu reintegrata da G. B. De Rossi e da G. Miniervini. Data la tecnica dell’iscrizione e lo stesso nome di lui, la lapide è anteriore al VI secolo. In seguito all’editto di Teodosio del 392, che aboliva il culto pagano, il calendario con le sue feste agli Dei cadde in disuso, e fu utilizzato per altro. Siccome il vescovo Claro sedeva sulla cattedra negli anni ‘499-501, è impossibile che Severo morto nel V secolo, sia posteriore a lui. Dev’essere anteriore, e dev’esser morto dalla fine del IV alla fine del V secolo. Dunque la serie storica dei vescovi di Alife si prolunga avanti di altri anni.
Bibliografia: C.I.L. IX, n. 2333; Atti della commissione monumenti di Terra di lavoro 1876, p. 72. Che la lapide risalga al IV-V secolo è il parere anche di esperti epigrafisti G. Camodeca (dalla fine del IV alla fine del V secolo) e N. Mancini (IV-V sec., «particolarmente significativo l’occhiello aperto della R, frequente nei secoli citati»; e anche per lui il nome è romano, non cristiano dal sec. VI in poi).
2. CLARO (Clarus episcopus).
Nome e qualifica si ricavano dal concilio romano del 499, che egli sottoscrisse. Se ne parlerà nel capitolo apposito. Nient’altro si sa di lui. È evidente la sua personalità latina.
Bibliografia: Mansi: SS. Conciliorum amplissima collectio; e tutte le storie ecclesiastiche.
3. PAOLO (Paulus episcopus).
Dopo quattro secoli di vuoto troviamo un vescovo di Alife. Il nome appare in tre giudicati di Pandolfo Principe di Benevento. Nella lite tra il Vescovo Vito e il monastero di Cinglia viene citato sei volte. Il vescovo di Alife è citato nella epistola papae Gregorii V ad Alfanum. I documenti parlano di lui negli anni 981-85, ma le sedi suffraganee di Benevento erano state occupate dai vescovi fin dal 969-70 e, o è stato lui il primo vescovo della ricostituita diocesi o, meno probabile, è successore di un altro rimasto sconosciuto.
Bibliografia: Gattola: Historia abbatia casinensis I 32, 37; Dei Meo: Annali 181 VI; Migne: Patr. Lat. C. 923 CLXXXVII; Kehr: Italia pontificia IX 114.
4. VITO (Vitus episcopus).
Fu il vescovo dell’anno Mille.
La prima notizia che lo riguarda è del 985. Da diacono della chiesa alifana fu promosso vescovo. Nella bolla riportata da Gattola, nella quale, dall’arcivescovo Alfano gli sono assegnati i confini del vescovato, è detto: …dum me ven. Vitum in Sanctam Aliphanam Ecclesiam episcopum consecrabat….Ultima notizia di lui è l’atto del 1020. Il vescovo ha per avvocati Giovanni diacono e Gotefrido chierico e notaro e tramite essi presenta molti documenti nella causa contro il monastero.
Bibliografia: Mansi: Conc. XIX, col. 19; Kehr IX, 115, dal 998; Muratori: Ant. It. XVIII 166, lo chiama Anonimo; Di Meo: Ann. VI 231, a. 998.
5. ARECHI (Arechis episcopus).
Arechis o Arechisius (varianti di Enrico) intervenne al concilio romano riunito da Papa Nicolò II nel 1059. Nel 1061 partecipò al sinodo regionale di Benevento, ed era presente alla sentenza pronunziata dall’arcivescovo Uldarico a favore dell’abate di S. Sofia contro il vescovo di Dragonara. Il suo nome sta inciso su una lapide nel soccorpo della cattedrale.
Bibliografia: Ughelli VIII 292, lo chiama Artis; Muratori: RR. II. SS., parte II col. 647; Cappelletti XIX 105, lo dice «anonimo»; Mansi: Conc. I col. 1398; Martène VII, col. 61 Veterum…
6. GOFFREDO (Gosfridus episcopus).
Una piccola lapide tombale nel soccorpo della cattedrale dice: GOSFRIDUS EPUS HIC REQUI(escit). Trutta assicura che fu trovata nel 1770, insieme alla cassetta delle ossa, mentre s’intonacava il tempio sotterraneo: «mostrano esser ivi state trasportate da altro luogo».
L’induzione è legittima. Alife divenne contea normanna nel 1065, e Goffredo dal nome normanno, va collocato fra il longobardo Arechi, morto dopo il 1059, e il normanno Roberto, già vescovo nel 1097-98. La cattedrale attuale (1132-35 approssimativamente) non esisteva. Fu seppellito altrove, e i suoi resti furono riportati ben presto nel soccorpo, dato il carattere della scrittura sulla lapide. Tanto vale anche per Vito. Di Meo, negli Annali, sempre contro Trutta, di questo vescovo dice: «falso!», ma e la lapide?…
Bibliografia: Trutta: Diss. 383; manca in tutti.
7. ROBERTO (Rubertus episcopus).
Vescovo già nell’Ottobre 1098, viveva ancora nel 1139. Il suo episcopato è denso di avvenimenti: nel 1097-98 vede partire i Crociati; nel 1132 riceve le reliquie di S. Sisto; fra gli anni 1132-35 vede sorgere la nuova cattedrale voluta dal conte Rainulfo III; nel 1135 assiste all’occupazione di Alife da parte di Re Ruggero II; e nel 1138 subisce il saccheggio delle chiese durante la tremenda distruzione della città e la strage dei suoi abitanti.
Dai documenti appare presente ad alcuni atti: nell’Ottobre 1098 alla donazione della chiesa di S. Giovanni alla Chiusa presso Prata, fatta da Arnaldo de Buchon (Buscione) in presentia domini Ruberti Dei gratia Allifiensis Episcopi; nell’Agosto 1100 si ricorda una donazione fatta al monastero di Cingla pure in sua presenza.
Per il fatto che il suo episcopato sia durato almeno 41 anni, alcuni hanno pensato che siano due vescovi dello stesso nome, uno nel 1098 e seguenti, l’altro dal 1124 in poi. L’indubbia lunghezza dell’episcopato, per me unico, di un normanno imposto giovane dalle autorità politiche, non deve meravigliare. Basta tener presente che sulla stessa cattedra c’è stato E. Gentile per 45 anni e mezzo (1776-1822), e A. Sanfelice per 45 anni (1413-58).
Bibliografia: Gattola: Hist. Cas. I 44 e 49; Di Meo: Ann. IX, 89; Kehr: It. Pont. IX 114, Gams: Series 847.
8. PIETRO.
Dal 1143 al 1148 è citato in documenti e in una vasta bibliografia.
Nel Novembre 1143 interviene al Parlamento, a Capua, riunito dal Re Ruggero II, e ne sottoscrive le decisioni insieme a prelati e signori. Si trova fra i quattro eletti a dirimere liti e discordie nel reame. Dunque fu anche personalità politica. Il 22 Aprile 1148, insieme a Siginulfo cescovo di Valva emanò sentenza contro il vescovo di Teramo riguardo alla giurisdizione sul monastero di S. Nicolò.
Bibliografia: Capecelatro: Storia di Napoli, 112; Cappelletti: XIX 106 fa avvenire probabilmente sotto questo vescovo la traslazione di S. Sisto, e XX 338, Chioccarelli: Antistitum 131; Di Meo X 125; Gallo: Cod. dipl. 88, n. 51; Kehr: IP IX 114; Janisons: Papers of British school at Rome VI 458 n. 5; Charta del 22 Aprile 1148; manca in Ughelli.
9. BALDOVINO (Balduinus episcopus).
Era un normanno, Baudoin, e i documenti che lo riguardano vanno dal 1179 al 1198. Il momento più importante del suo episcopato fu nel Marzo 1179, quando intervenne al terzo concilio ecumenico riunito al Laterano. Nel Marzo 1180 stava a Montecassino e insieme ad altri, chiese al card. Ruggero arcivescovo di Benevento, che i visitatori lucrassero l’indulgenza. Il metropolita convocò i vescovi suffraganei, e insieme dettero l’indulgenza di un anno: Datum apud sanctum Germanum, in natali Apostolorum Petri et Pauli, in anno Dominicae Incarnationis MCLXXX, Pont. D. Alexandri III anno XXI, mense Julio Ind. XIII.
Interrogò Papa Alessandro III circa il conferimento delle dignità che vacavano da quindici anni nel capitolo di Alife, se un chierico può avere due chiese, ed altro. Il Papa rispose fra l’altro: «De possessiones laicis sub modico censu concessis, quod ad proprietatem Ecclesiae laesae conveni eas redire».
Nel 1198 ottenne da Papa Innocenzo III pieni poteri anche di ipotecare i beni della chiesa per lavori da eseguire in cattedrale.
Bibliografia: Holtzmann: Quellen… XXXVIII (1958) 139 n. 184 Edd. App. Conc. Lat. t. XXIX col 7 ; A. Augustini: Opera Omnia IV 70 171 ; Migne P. L. CLXXXVII col. 923; Gattola: Hist. I 399.
10. LANDOLFO (Landulfus episcopus).
Stiamo nel settantennio svevo. La lotta per la supremazia in Italia fra imperatore ghibellino e papa guelfo coinvolge anche l’episcopato.
Da un primo documento si sa che il Papa Innocenzo III lo autorizza a scomunicare gli ecclesiastici che presumano accusarlo al tribunale civile. Da altre notizie appare estromesso.
Un’ultima notizia è data da Pratilli. È ricavata dal necrologio di S. Benedetto di Capua, secondo cui Landolfo morì il 27 Settembre di un anno imprecisato: V Kal. Oct. Landulfus canonicus et episcopus alliphanus. Dopo l’espulsione si era ritirato a Capua.
11. NON NOMINATO.
Da Eubel viene la notizia «…contra successorem eius (di Landolfo) cuius nomen ignoratur, infra XXX aetatis suae annum constitutum per laicalem potestatem, electum, et postea consecratum, et propterea vinculo excommunicationis innodatum, procedi jussit Onorius III».
Le accuse contro l’intruso erano state rivolte al papa da alcuni canonici della cattedrale, secondo i quali era stato eletto vescovo non ancora trentenne, era stato imposto dal potere politico, aveva ottenuto la consacrazione sebbene fosse scomunicato per prepotenze fatte a un ecclesiastico, e aveva anche privato dei suoi diritti il predecessore.
Il Papa si rivolse per informazioni al vescovo di Teano: Datum Later. VII Kal. Sept. a. II (1217). Ma le prove addotte furono sottratte, inquanto il vescovo era probabilmente persona di fiducia del conte di Alife. Con tutto ciò la condanna venne, anche se tardi: il 21 Agosto 1217 fu espulso.
Bibliografia: oltre alle note, v. Kehr: It. Pont. IX 115.
12. NON NOMINATO.
Fra il 1217 e il 1239 è vissuto un altro vescovo il cui nome non è stato tramandato. Era probabilmente lui a opporsi alla costruzione di un monastero di Cistercensi presso San Gregorio, tanto da provocare una lettera di Papa Onorio III del 20 Agosto 1225, diretta a conoscere le ragioni dell’opposizione (v. capitolo sui Religiosi). Ma è noto per ben altro.
Fautore della politica papale nel reame, invece di stare al suo posto di pastore di anime, si schierò apertamente con le forze armate papali che avevano invaso Terra di Lavoro, profittando dell’assenza dell’Imperatore Federico II, allora in Terra Santa. Senza l’inquadramento nella storia l’agire di questo vescovo non può essere capito, e si rischia di vederlo solo come una vittima, come hanno fatto Ughelli e i cronisti locali: essi ne ricordano le sofferenze, senza dire perché le soffrì.
Nel favoreggiamento dell’occupazione papale si erano dichiarati più o meno apertamente i vescovi di Aquino, Teano e Venafro; quello di Alife forse più degli altri. I 2.000 papalini comandati dal cardinal Pelagio vescovo di Albano, giunsero anche nel Medio Volturno. Ailano si arrese, Alife fu occupata, ma il presidio fedele al conte Tommaso di Aquino, conte di Alife, resistette nel castello. Piedimonte (attuale quartiere San Giovanni) fu occupata. La «fortissima torre» (cioè Piedimonte alta, oggi Castello Matese), resistette.
Ma ecco l’Imperatore. Il vescovo ormai compromesso, seguì i pontifici nella loro fuga. Tutti – soldati, legato pontificio, vescovi di Aquino e di Alife – si chiusero in San Germano (Cassino). Ma s’interposero il Gran Maestro dell’Ordine Teutonico, l’abate di Montecassino, i «pacieri» cardinali Giovanni di S. Sabina e Tommaso da Capua, e il vescovo sconosciuto, gli altri e i soldati tornarono a casa. Tutto all’italiana. La pace fra Impero e Papato, il 23 Luglio 1230, gli aveva permesso tanto, ma la fiducia del sovrano era perduta per lui.
Nell’Agosto 1233, il Giustiziere di Terra di Lavoro, Ettore di Montefusco, convoca i vescovi presso Teano. Erano presenti quelli di Calvi, Carinola, Caserta, Nola, Venafro, e lui. Ma dopo una iniziale cordialità – il giustiziere chiese se avevano ricevuto qualche indennità per i cattivi trattamenti subiti –, furono arrestati, processati e cacciati in esilio. Le lagnanze dei prelati contro i funzionari governativi dovettero rivelare altri fatti?… Il fatto che l’Imperatore fece arrestare anche i fratelli del vescovo, indicherebbe la consistenza del lavorio di consorteria, per cui la seconda espulsione fu definitiva. In esilio, non si sa dove, morì in miseria.
Nel 1239 era già morto. Dal Marzo all’Ottobre ’39, il vescovato rimase vacante, e sottoposto a un procuratore laico, sostituto del procuratore capo di Terra di Lavoro.
Bibliografia: Ughelli: VIII 292; Kamp N.: o.c. 217.
13. ALFERIO (magister Alferius).
Data la presenza in Alife dei De Alferiis, o Alfieri, è chiaro che Alferio è cognome latinizzato. Uscito dalla piccola nobiltà locale, colto, è il tipico ecclesiastico di carriera. Comincia come cappellano del cardinale Ottoboni. Dal seguito di lui, diacono di S. Adriano, passa a canonico di Alife e, il 27 Aprile 1252, a vescovo della sua città natale. Fu il Papa in persona, Innocenzo IV, a imporlo praticamente al Capitolo che aveva il diritto di elezione, con lettera apostolica del 27 Gennaio 1252, epistola 382.
Ma non poté pigliare possesso. Corrado IV Imperatore e Re di Sicilia aveva ristabilito in pieno la sua autorità sul reame e su Terra di Lavoro in specie. Evidentemente non gradì la presenza del prelato curialista, legato alla politica guelfa papale. Di fronte a questa situazione, durata due anni, Innocenzo IV trasferì Alferio a Viterbo, il 28 Aprile 1254. Vi morì nel 1258.
Bibliografia: Ughelli VIII 292 porta la nomina al 1257; Eubel I 83; DHGE II 450; Kamp: Kirche…
14. ROMANO (Frater Romanus Ordinis Praedicatorum).
Domenicano e sottopriore del convento di S. Sabina in Roma, dopo il trasferimento del vescovo Alferio, fu nominato vescovo di Alife da Papa Innocenzo IV, il 29 Marzo 1254.
L’11 Novembre (III Idus) 1254 Innocenzo IV gli scrive affinché con altri vescovi voglia consacrare Ugo vescovo di Teano. Già nel Settembre gli aveva permesso di contrarre un prestito.
Gli anni del suo lungo episcopato passarono senza forti scosse. È del 1271 il suo accordo con un barone circa il possesso di una chiesa. Ma in ultimo avvenne un fatto spiacevole. Poco prima del 1284 fu citato dal Legato Gerardo da Sabina su basi sconosciute, e poiché non comparì, il Legato gli ritirò i redditi. Fra Romano andò alla curia romana per seguire il suo processo, e pare che non tornò più in diocesi. Nella curia appare come impiegato delle indulgenze.
Nel 1292 era già morto. In quell’anno, Gentile vescovo di Reggio Calabria si trova come Amministratore Apostolico di Alife.
Bibliografia: Ughelli VIII 292; Fontana V. S. TeatumDom; Eubel I c. 83.
15. PIETRO.
Nel 1305 era vescovo di Alife, come si ricava dal Reg. Angioino di quell’anno.
Forse era alifano, se zio del seguente.
Bibliografia : Ughelli VIII, 292; tutti ripetono Ughelli; Eubel I, 83; Gams 817; Iacobelli 41.
16. FILIPPO.
Era vescovo nel 1308-10. Forse era alifano.
Il 18 Dicembre 1308, Egidio de Villacublai barone di Prata, gli presentò per la conferma, il prete Taddeo quale rettore di S. Pancrazio di Prata. Aveva un nipote dello stesso nome. Si ricava dalle Rationes decimarum: Abbas Philippus nepos domini episcopi adhuc tarenos IIII, e più oltre: Abbas Philuppus pro beneficiis suis quae valent uncias II solvit tareno II (c.s. 249). Il primo documento in cui appare è una pergamena dell’archivio capitolare di Caiazzo, del 30 Agosto 1300.
Bibliografia: Eubel I, 83 (a. 1309); Gams 847; manca in Ughelli.
17 NICOLA (Nicolaus episcopus).
È ricordato nella nomina del successore per il giorno della morte in cui questi gli successe immediatamente, l’8 Marzo 1346.
18. TOMMASO DELLE FONTI (Thomas de Fontibus).
Era canonico della cattedrale di Teano, e l’8 Marzo 1346 successe al vescovo Nicola. Il 25 Aprile 1348 emanò disposizioni disciplinari ricordate dal vescovo Sanfelice, il quale, il 29 Marzo 1417 dichiara di aderire alle sanzioni: «…inharaendo replicatis sanctionibus nostrorum praedecessorum, et praesertim Thomae de Fontibus, sub die XXV Aprilis MCCXLVIII» (v. capitolo «Le assemblee del clero».
Bibliografia: Ughelli VIII 298 dà notizia della nomina «ut in Regestro Vaticano epist. 552 (li. IV, fo. 44)»; Eubel I 83: lo chiama Infontis; DHGE lo dice canonico di Chieti, confondendo theatensis con teanensis.
19. BERTRANDO (Bertrandus episcopus).
Nominato il 3 Dicembre 1348, il 28 Marzo 1350 s’impegnò a pagare il subsidium alla curia romana, come dal libro delle obbligazioni.
L’aria di Alife gli fece male, e chiese di essere trasferito. Si ricava dagli «Arcani historici» di Niccolò Alunno. Vi è scritto: «Vescovo di Alife, Bernardo, incontrando poca bona temperie d’aere in questaa città e diocesi, s’incamminava con lenti passi a perdere totalmente la salute, mentre dal tempo che vi pervenne, mai poté godersi giorno salutifero; ricorse però ai Regi, e questi supplicarono il Pontefice a cambiarli prelatura, con destinarlo a Diocesi di esperimentato ambiente».
20. ANDREA (frater Andreas ordinis fratrum minorum).
Nacque a San Severino in provincia di Salerno, entrò tra i Francescani, e riuscì a fondare un convento dell’ordine nel suo paese. Papa Innocenzo VI approvò la fondazione. Da Wadding si ricava pure che era tenuto in conto a corte, presso la Regina Giovanna I, di cui era fidelis et familiaris. Il 10 Novembre 1361 diede il possesso di arcidiacono a Giovanni Alferio.
Bibliografia: Wadding: Annales Minorum IV; Ughelli e Eubel o. e l. c.; Cappelletti: Chiese d’Italia, riporta che la fondazione doveva farsi in Alife.
21. GUGLIELMO (Guilelmus episcopus)
Il successore, Giovanni Alferio, il 14 Maggio 1389 pagò anche per lui il subsidium Camerae Collegii Cardinalium. È l’unica notizia che abbiamo.
Bibliografia: Gams e DHGE lo dicono morto verso il 1380; sbaglia Iacobelli che lo dice vivente nel 1390, se dal 1389 era vescovo Giovanni Alferio.
22. GIOVANNI ALFERIO (Johannes Alferius o De Alferiis).
Nacque in Alife, da Pietro. La famiglia – la stessa dell’altro vescovo –, era di valvassori del conte, e perciò di cavalieri. Divenne competente in Diritto, e, fine com’era nei modi, dopo che fu fatto arcidiacono da diacono che era, fu promosso vescovo della sua città natale da Urbano VI suo affine. Nipote del Gran Cancelliere Nicolò Alunno, e forse affine anche del card. Renzo, acquistò pure importanza politica riuscendo caro a Re Ladislao, che lo ebbe per consigliere della Corona. Fu lui a salvare il prezioso manoscritto dello zio Nicolò Alunno.
Da vescovo pagò per sé e per il predecessore Guglielmo, il subsidium; e il 27 Maggio 1396 emanò disposizioni di disciplina ecclesiastica ricordate dal vescovo Sanfelice: «inhaerendo… sanctionibus… Johannis de Alferiis nostri etiam concivis». Il 16 Dicembre 1390 fondò un oratorio in S. Maria Maddalena in Alife, e lo dotò per la celebrazione di messe. Nominato pare, nel Maggio 1389, morì nel 1412. Alife gli ha dedicato una via.
Bibliografia: Ughelli VIII, 294, Gams 847; Eubel I, 83; Ciarlante IV, cap. 29; Occhibove 3; Iacobelli 32; Marrocco D. Arcani hist. 5; Baumgarten P. M.: Unterschungen… LII-LIV, 270.
23. ANGELO SANFELICE.
Nacque ad Alife da nobile famiglia oriunda di Isernia. Lì, i Sanfelice, venuti nel reame da Marsiglia, possedevano casa e beni. Il loro stemma aveva lo scudo spaccato, e nel campo superiore era d’argento ai tre passeri di rosso passanti a sinistra, e nell’inferiore di rosso ai tre passeri d’argento passanti sempre a sinistra.
Già arcidiacono, fu eletto vescovo dal Capitolo il 13 Febbraio 1413. Il suo episcopato durò ben 45 anni.
È del 20 Dicembre 1416 un suo decreto sulla disciplina del clero. Ma non essendo conservato nel suo testo originale, per Trutta si riduce a una falsificazione del primo ‘700.
Molto importante è il laudo o regolamento arbitrale per la disciplina del clero di Piedimonte, da lui emanato il 25 Febbraio 1417.
Il 5 Settembre 1419, Papa Martino V lo incarica di assolvere dalla scomunica Giacomo Gaetani e Giovannella Orsini, consanguinei, che si erano sposati senza dispensa pontificia, e di legittimare la prole.
Nel 1432 pubblica un altro editto per riunire un sinodo, a Pentecoste, in Cattedrale (neanche questo è accettato da Trutta).
Nella quaresima 1436 sale sul monte Muto di Piedimonte. In uno di quei sabati, un pastore trovò una pecora inginocchiata dinanzi a una cappella ad abside, coperta di rovi. Nasceva S. Maria Occorrevole.
Doveva essere ben nota a Roma la sua rettitudine se, ancora il 13 Febbraio 1454, il card. D. Capranica Penitenziere Maggiore lo invitava ad assolvere, dopo la penitenza, il prete Giovanni Maciotto che il 2 Marzo 1454 Sanfelice assolve.
Bibliografia: Trutta mss. di S. Maria Maggiore, 135 sgg.; Caetani R., Ch., 82.
24. ANTONIO MORETTA (Frater Antonius ordinis Praedicatorum).
Il 13 Giugno 1458, Papa Callisto III dava per successore di Sanfelice, fra Antonio Moretta domenicano.
Il cognome non è precisamente quello riportato: sulla lapide è Morrettus, da Fontana Marresius, e da Eubel Maresse. Rimase sulla cattedra per 25 anni, essendo morto nel 483.
La ricostruzione della Cattedrale, terminata nel 1475, fu l’opera sua principale: «Cathedralem pene collapsam, nova molitione restituit». La ricostruzione è ricordata anche sulla lapide tombale: Basilicam destructam erexit. La sua tomba si trovava presso il sepolcreto dei vescovi, presso la porta centrale della Cattedrale.
Il 28 Aprile 1475, il Maestro generale dei Frati Predicatori, Maestro Leonardo de Mansuetis gli concedeva: «R.us D.us Episcopus Alifi, qui est de Ordine nostro, potest assumere et commutare duos fratres in socios, qui maneant ad obsequium suum, ad audiendas confessiones eius et aliorum, et officiandum, necnon ad confaciendum ea quae suae confessioni conveniunt sine molestia alicuius».
Bibliografia: Fontana V.: Teatrum Dom. 131; Rispoli: Bullarium O. P. III 174; Ughelli VIII 294.
25. GIOVANNI BARTOLI (Johannes Bartholomaeus Bartoli).
Era arcidiacono della cattedrale, e fu eletto vescovo dal Capitolo, il 16 Dicembre 1482.
La data però discorda: per Ughelli è il 16 Gennaio 1483, come per Gams; per il manoscritto di Santa Maria Maggiore è il 2; e per Iacobelli il 13 Febbraio. Forse ognuno riporta una data o di nomina o di possesso, o di pagamenti di obbligo alla curia romana.
Morì nel 1486.
Bibliografia: quella detta sopra.
26. JUAN DE ZEFRA (Johannes de Zefra).
Si sa che era spagnolo, di Toledo.
Fu eletto il 6 Settembre 1486, e si obbligò al pagamento delle tasse di curia. Morì nel 1504.
Bibliografia: come per il precedente.
27. ANGELO SARRO DI OLIVETO.
Il cognome è variamente riportato: Sacco da Eubel, Sarri da Gams. Già arcidiacono della Cattedrale, fu eletto dal Capitolo il 26 Maggio 1504. Ebbe un episcopato di venticinque anni, e morì nel 1529.
Nel 1516 consacrò la chiesa di S. Maria porta del Paradiso a Sant’Angelo di Raviscanina.
Bibliografia: Cappelletti XIX 109, data di elezione: 26 Marzo.
28. BERNARDINO FUMARELLI.
Nacque a San Germano, ma si sa poco di lui fino alla nomina a vescovo di Minervino. Il 16 Agosto 1532 fu trasferito ad Alife. Siccome non gli piaceva star fermo in una sede, il 13 Novembre 1533 ottenne il trasferimento a Sulmona ove morì nel 1547. In quella sede si conservano di lui molti documenti, e i più importanti vanno dalla cessione della diocesi fattagli dal Card. Della Valle al culto dei santi locali Pelino e Panfilo che egli curò.
Bibliografia: molte lettere e documenti; Ughelli I 382, e VIII c. 295. Eubel III 117: Lat. 1544 f. 279; Cappelletti XIX 109 dà per patria San Gimignano in Toscana.
29. MICHELE DE TORELLI.
Assai incerto il cognome (de Torcellis in DGHE, Torcella in Eubel, Torrelli in Cappelletti, Torellos in Ughelli e manoscritto di S. Maria M.) e la patria. Secondo Cappelletti era romano, figlio naturale di Gaspare, maggiordomo di Papa Clemente VII, legittimato dal papa stesso. Da Iacobelli si sa che era arciprete di Sulcis in Sardegna e canonico di Cagliari e di Valenza. Che avesse un canonicato a Suelli in Sardegna è provato da Scano: il 16 Aprile 1534, Papa Clemente VII, in seguito alle dimissioni di lui, lo conferiva ad altri. Che lo fosse anche di Valenza (di Spagna o d’Italia?) è provato da Eubel reservata pensio centum ducatorum canonicus Valentanus.
Fu nominato vescovo di Alife il 4 Novembre 1532, e restò in diocesi otto anni e mezzo. Il 6 Aprile 1542 (non Agosto) fu trasferito ad Anagni, ove morì nel 1572.
Bibliografia: Cappelletti XIX 109; Eubel III, 117; Ughelli VIII, col. 210; Dionigi Scano: Codice diplomatico delle relazioni fra la S. Sede e la Sardegna (Cagliari 1941) vol. II, p. LIII introduz., v. doc. CDXIII riportato dall’archivio Vaticano, vol. 1429, f. 136.
30. IPPOLITO DE MARSILIIS.
Nacque a Larino, ma non si sanno altri particolari fino alla sua nomina a vescovo di Alife, il 6 Aprile 1541. Rimase in diocesi per circa cinque anni. Nel 1545 fu tra i nove vescovi desisgnati dal Papa a intervenire al concilio di Trento, ma non partecipò ai lavori conciliari forse per l’età avanzata. Morì nel 1546, e fu sepolto nella Cattedrale apud suos tumulatus antecessores.
Bibliografia: Ughelli VIII, 210, lo dice lunensis, di Luni, da cui i cronisti locali hanno ricavato Lucca, ma già nell’editio secunda aveva corretto; e larinensis è per Eubel III 117 AC 4 f. 124; per Gams 847, è Marsigli; per il concilio di Trento, v. Di Lello B. quanto riguarda il vescovo Pighino.
31. SEBASTIANO PIGHINO.
Il 17 Settembre 1500 nacque ad Arceto (Reggio Emilia) da Graziano e da Caterina de Vigaronis. Nel 1528 era lettore nello studio di Bologna, e il 22 Febbraio 1533 vi si laureò in utroque. Subito ebbe mansioni di curia, fu nominato cappellano pontificio e, ancor così giovane ebbe mansioni a Perugia con gran soddisfazione dei perugini. Il 31 Marzo ’44 diveniva uditore della S. Rota, e restò in quell’ufficio nove anni. Il 21 Dicembre ’45 ricevé gli ordini sacri e, pure in quei giorni, un canonicato a Capua. Il 27 Agosto ’46 fu nominato vescovo di Alife.
Gia si trovava a Trento, al concilio, e lì fu consacrato. Dopo meno di due anni, il 4 Giugno ’48, fu trasferito a Ferentino. La sede alifana era stata data per puro caso a lui che, occupato com’era nei lavori conciliari, non venne mai in diocesi. Da Ferentino, il 30 Marzo ’50, ebbe un altro trasferimento a Manfredonia, e l’11 Dicembre ’53 ancora un altro trasferimento, stavolta ad Adria. Qui, tramite un arciprete che lo rappresentava, s’interessò un poco della diocesi. I vescovati gli servivano per titolo ed emolumento, specie l’ultimo notevolmente ricco. Divenuto cardinale nel 1551, morì a Roma nel 1553.
Bibliografia: Ughelli VIII 295: data della consacrazione 22 Aprile; Ciacconio: Vitae 776; per i lavori a Trento, v. Di Lello B. al cap. Le assemblee del clero; Cerchiara E.: Cappellani et apostolicae Sedis Auditores (Roma 1919); Eubel III 117, AC 4 f. 279 ss., e per i trasferimenti 95, 195, 301.
32. FILIPPO SERRAGLI.
Nacque a Firenze da nobile famiglia. Fu monaco e abate generale della Congregazione di M. Oliveto. Nel capitolo generale, eletto abate generale, rinunziò. Da Papa Paolo III fu nominato vescovo di Madruz in Dalmazia, e il 22 Giugno 1548 trasferito ad Alife, ove morì nel 1444. Rinunziando a Madruz, s’era riservata una pensione annua di 60 ducati pro persona nominanda.
Bibliografia: Cappelletti XIX, 109; DHGE porta al 4 Giugno ’48 la data del trasferimento; Gams al 22 Luglio il trasferimento, e al ’57 la morte; Eubel III 175 lo chiama de sereallis.
33. ANTONIO AGUSTIN (Augustinus).
È l’uomo più colto seduto sulla cattedra alifana.
Nacque a Saragozza il 25 Marzo 1517 da Antonio e da Isabella dei duchi di Cardona. Il padre era Vicecancelliere del regno di Aragona.
Compì i primi studi a Saragozza; a nove anni passò ad Alcalà per la Filosofia, e poi a Salamanca per il Diritto. Volle perfezionare il suo spirito fine nelle università italiane, e il fratello maggiore, suo primo ammiratore, lo sostenne nelle spese. Nel ’35 frequentò Bologna per due anni, nel ’38 a Padova si perfezionò in Latino e Greco, tornò a Bologna per quasi cinque anni, poi andò a Firenze per poco. Nel ’41 s’era laureato in utroque, e nel ’44 si trovava a Roma.
L’anno stesso diveniva cappellano pontificio, e, appena ventisettenne, su designazione dell’Imperatore Carlo V, Uditore della S. Rota, derogando per lui dalle decisioni di Innocenzo VIII. Nel ’54 andò in Inghilterra quale nunzio straordinario di Papa Giulio III, per il matrimonio di Filippo II di Spagna con Maria Tudor, e finalmente l’11 Dicembre 1556 veniva nominato vescovo di Alife. La presa di possesso avvenne il 27 Settembre ’58.
All’atto della nomina non era ancora ordinato, per cui l’11 Dicembre fu ordinato prete, e il 19 consacrato vescovo.
Dimorò in diocesi per tre brevi periodi, come si ricava dalle sue lettere: 1) Autunno-Inverno 1558-59 (invia sei lettere da Piedimonte); 2) nella tarda primavera del ’59; 3) Dicembre ’59.
Nel ’56, prima di venire in diocesi, era stato Nunzio straordinario a Vienna, per trattare la pace tra Filippo II e suo zio l’Imperatore Ferdinando (e si conserva una fitta corrispondenza di lui col Papa). Fra il primo e il secondo periodo piedimontese, fu incaricato dal Re Filippo II di andare in Sicilia quale Visitatore delle chiese siciliane.
Nel ’58 aveva dato il voto sulla successione dell’Impero da Carlo V al fratello Ferdinando I, attuata senza il consenso della S. Sede, e fu revocato da Nunzio. Intanto era stato chiamato a Trento, ma lì giunse il 23 Ottobre ’61. Due mesi prima, l’8 Agosto era passato alla diocesi di Lèrida nella sua patria, per cui al concilio figurò come Yleridensis. Dove stava nel Febbraio ’61?… In quel mese Alife, stupita, apprendeva che il suo conte era stato decapitato a Roma, e poco dopo vedeva arrivare truppe spagnole e pontificie che la saccheggiavano. Gli abitanti fuggivano nei paesi vicini, specie a Piedimonte.
Dopo quindici anni, il 17 Settembre 1576, il coltissimo prelato aragonese compiva l’ultimo balzo in avanti: arcivescovo di Tarragona, ove morì il 31 Maggio 1587, lasciando appena il denaro per i suoi funerali. Tutto aveva speso per i libri e le opere di cristiana carità.
Pubblicazioni: (diritto romano) 1543 Emendationum et opinionum li. IV (Venezia); Juliani antecessoris epitome novellarum; Verborum quorumdam Juliani; Justinianus Imperator: De niminibus propriis Pandectarum; Emendaciones a las leges romanas; De diversis regulis antiqui juris explanationes; De legibus et senatuconsultis Romanorum; Ad Modestinum; Ad Hadrianum; Ad edictum perpetuum; Corpus juris civilis jurisprudentia restituta; (diritto canonico) 1576 Antiquae collectiones decretalium; Canones poenitentiales; De quibusdam veteribus canonis judicium et censura; Dialogorum libri de emendatione Gratiani, Constitutionum provincialium tarraconensium li. V; Constitutiones provinciales et synodales tarraconenses ; De Pontifice Maximo, de Patriarchis et Primatibus (parvero indispensabili sotto l’aspetto dogmatico), Juris pontificii veteris epitome ; Institutiones juris pontificii ; Epitome decisionum rotalium; (storia, araldica, numismatica) 1557 Note a Varrone; Note a Sesto Pompeo; In libros Festi de verborum significatione; Familiae romanae quae reperiuntur in qntiquis numismatibus; Dialogui de las medallas, inscripciones u otras antiguedades; Antiquitatum romanarum hispanicarumque; De las armas; Ex libris de familiis Romanorum; De Romanorum gentibus et familiis. Le lettere furono pubblicate a Roma nel 1804.
L’opera sua è interessante perché la ricerca è svolta con l’indirizzo storico sia nel campo del Diritto canonico che in quello romano. Chiamato da Paolo IV fra i correctores di Graziano, progettò fin dal 1557, una collezione di concili, ma non poté eseguirla. Fondamentali in Diritto canonico le sue opere per la ricchezza delle informazioni e la profonda critica. Fu uno dei primi a vedere rapporti interdisciplinari, e così non divenne unilaterale. Morì mentre preparava l’edizione delle opere di Isidoro di Siviglia. Amante di libri, mise su una ricca biblioteca, poi passata quasi tutta all’Escuriale. Fu una delle figure più rappresentative del secolo di Filippo II. Oltre all’affettuosa laudatio funebris del suo amico Schott, concludo col giudizio di Aldo Manuzio: «de acerado juicio, y de vasto y profundo saber enciclopedico».
Bibliografia: Biblioteca Hispana II, 79; Enciclopedia española I, 678; Enciclopedia Italiana (Treccani) II, 117; Florez: España sagrada; Schött: Laudatio funebris… Antonii Augustini (in Gallandi: De veteribus canonum collectionibus dissertationem sylloge (Mainz, 1850); Maassen: Geschichte der Quellen und Litheratur des canonischen Rechts im Abendlande (Graz 1870, pagg. XXX-XXXIV); Marrocco D.: L’antica Alife (Piedimonte 1951), giudizio non positivo per una lapide; Id.: Breve storia dell’epigrafia alifana (su Samnium 1959, I) in cui il giudizio è corretto; Occhibove N.: De Canone studiorum 96, 118, 145. Per le nomine interessa molto Eubel III 117: la nomina a vescovo è ricavata da AC 7 f. 105 segg., ed è del 15 Dicembre.
34. JACOPO GILBERTO DE NOGUERAS.
Se l’esatto cognome è Gilbert, nacque a Daroca, ove fin dal secolo XIV esiste questa famiglia. L’anno è ignoto: verso il 1525. Completò gli studi di teologia col dottorato conseguito a Ingolstadt, il 12 Febbraio 1557. Giò aveva viaggiato per la Germania quale cappellano della Regina Maria di Boemia, e poi quale cappellano e predicatore dell’arciduca Ferdinando, il futuro Imperatore. Pur essendo ancora giovane, raggiunse il grado di Decano della Cattedrale di Vienna.
Trasferito Augustìn a Lérida, l’8 Agosto 1561, fu nominato vescovo di Alife, e si stabilì a Piedimonte, nel palazzo De Clavellis alle Coppetelle. Si ha un primo periodo di permanenza in diocesi che si prolunga fino al Gennaio ’62.
Di indole focosa, ebbe subito un primo urto con il Capitolo e l’Università di Alife, ma non ne sappiamo i particolari. Questi ci sono invece nell’urto coi canonici di S. Maria Maggiore, allora a Piazzetta, a due passi dall’improvvisato episcopio. Voleva nominare i canonici di quella Collegiata, mentre da oltre un secolo venivano eletti dai canonici stessi.
Nel Febbraio ’62 Nogueras parte per il concilio, a Trento, e il clero diocesano respira fino al Dicembre ’63.
Ma nel Gennaio del ’64 sta a Venezia, e nel Febbraio-Marzo sta di nuovo in diocesi. È il secondo periodo che si prolunga fino all’Ottobre ’65. Di fronte alle lettere minacciose di lui, S. Maria Maggiore ha da tempo fatto ricorso, e Papa Pio IV ha incaricato il vescovo di Caiazzo a imporre il silenzio sulla questione. È il 21 Ottobre 1564.
Ma più violento e drammatico è ora l’urto con il Capitolo e con l’Università di Alife. Il 30 Settembre ’65 viene denunziato. Il notaio Ercole De Parrillis, in S. Lucia cappella della Cattedrale, stende la denunzia che viene firmata dall’arcidiacono, dal primicerio e da sei canonici. Eleggono procuratore il dott. Luigi Droghi di Roma. Comparisse dinanzi al Papa e all’Inquisizione, e denunziasse «scandali, mali esempi e gravami», e chiedesse la sostituzione. Nello stesso giorno, in S. Caterina, si costituiscono il sindaco Florio, il correttore Francesco Carlone e tutti gli uomini di Alife. Identica istanza al dott. Droghi: Nogueras ha proibito i Sacramentali e altro, usa rigore eccessivo, c’è la «heretica pravità»… Il Papa «provvedesse la città, di altro cattolico Pastore». Stavolta S. Maria Maggiore non si è unita.
Nogueras è chiamato a Roma dal S. Ufficio. Da Roma giunge l’ordine al Capitolo di tenerlo come morto, e di eleggere il Vicario capitolare.
Ne viene l’ultimo periodo dell’agitata vita del prelato, dall’Ottobre ’65 al Luglio ’66: nove mesi di miseria, fra ospedale e carcere del S. Ufficio. Al concilio, Nogueras aveva attaccato la giurisdizione papale, e ora, durante la permanenza all’ospedale S. Spirito, Papa Paolo IV non gli dà aiuto! Finché, nel Luglio ’66, liberatrice e misteriosa, la morte, a quarantun’anni!
Quando il vescovo Gentile fece dipingere al primo piano dell’espiscopio di Piedimonte, la serie dei vescovi, sotto il nome di Nogueras fece scrivere:
OBII ANNO MDLXVI INNOCENTIAE VICTIMA
Pubblicazioni: De ecclesia Christi, mss.
Bibliografia: Concilium Tridentinum, voll. I-XIII (Friburgo 1901 sgg.); Gutierrez: Espanoles en Trento (Valladolid 1951); Gargiulo F.: Giacomo Gilberto de Nogueras vescovo di Alife (Firenze 1969), con molta bibliografia; Di Lello B.: Il jus divinum dei vescovi difeso al concilio di Trento da un Vescovo di Alife, su Annuario 1971 dell’ASSA; L’Acacia (rivista della Massoneria italiana, n. del 1947, mette in risalto gli aspetti poco chiari della morte; Ughelli VIII 269, da cui Iacobelli mss.; Eubel III 117.
35. ANGELO ROSSI.
Prete di Terni e utriusque juris doctor, fu nominato il 31 Gennaio 1567. Resse la diocesi per circa un anno, e morì a Prata, dove si trovava in s. visita. Aveva quarantasette anni.
La lapide, in S. Francesco di Prata, ha qualche punto oscuro. Dice:
ANGELO ROSCIO INT / ERAMNATI NAHAR / TI MARIANGELI FRATI G / ALEACII(?) EPISCOPI ASISINA / TUM FILIO EPISCOPO AL / IPHANORUM VIXI(t) / ANN XLVII / (ben)E MERENTI P(osuit) MDL (…?).
Quella nella cattedrale di Terni, oggi introvabile, è riportata da M. Perrotti, in Note storiche, pag. 315.
ANGELO ROSSIO MARII ANGELI FILIO / EPISCOPO ALIFANORUM / CONVEN. DE MORE CIRCUMEUNTI AETERNIS / IN COELUM EREPTO / EJUS OSSA SUIS DESIDERATA / PRATAE JURISDITIONIS OPPIDO SOLVUNTUR / BENEMERITI / LUDOVICUS PATRUELIS GABRIELIS FILIUS / POSUIT 1568.
Bibliografia: quanto al giorno della nomina, Ughelli o.c. VIII 296: 24 Gennaio; Eubel o.c. III 117: 31 Gennaio, da AC 9, f. 162; la stessa data in DHGE.
36. GIOVANNI BATTISTA SANTORO.
Nato a Taranto, divenne maestro in Teologia e arciprete di Gravina. Nominato vescovo di Alife, il 13 Dicembre 1568 fu consacrato a Roma nella cappella del palazzo pontificio da Giulio Santoro arcivescovo di Santa Severina e dai vescovi di Bagnoregio e di Sant’Agata. Da Roma, il 22 Dicembre ’81, spedì la bolla Ex injuncto, con cui fissava l’arcipretura di Piedimonte in S. Maria Maggiore.
In Roma godeva grande reputazione, ma in diocesi si ricorse contro di lui, perché profittava nelle morti improvvise ab intestato: voleva il patrimonio del defunto ad causa pias, o negava la sepoltura ecclesiastica.
Dopo quattordici anni di permanenza a Piedimonte, il 28 Gennaio ’86 fu trasferito a Tricarico. Per qualche tempo era stato «maggiordomo» del palazzo pontificio a Roma. Fu anche nunzio straordinario in Svizzera.
Bibliografia: Ughelli VIII 297; Eubel III 117.
37. ENRICO CINI (Fr. Magister Henricus ord. Min. Conv.).
Nato a Siracusa, entrò fra i frati Minori conventuali. Divenne maestro in Teologia, e versato in Astrologia. Il 26 Maggio 1577 fu nominato ministro provinciale di Oriente, con sede a Pera presso Costantinopoli, e governò i cattolici latini in rappresentanza del Card. Ricci (de Pisis) patriarca latino, residente a Roma. È del 17 giugno 1576 una notizia inedita che lo riguarda: la potestà episcopale conferitagli, da esercitare nelle regioni di Oriente: «super episcopalem auctoritatem quam ipse exercet in Orientalibus partibus».
Il 17 Febbraio 1586 fu nominato vescovo di Alife, e consacrato dal Cardinale G. Santoro, assistito dal patriarca P. Rabila e da R. Bonello arcivescovo di Ragusa. Risiedette a Piedimonte, in palatio prope Collegiatam S. Mariae Majoris. La data di nomina non è sicura, in quanto Eubel porta ll’8 Gennaio ’86 l’indulgenza da lui data pro prima myssa in ecclesia aliphana. Morì nel 1598.
Bibliografia: Pirro Rocco: Sicilia sacra (Panormi 1638), III 207; Benoffi A.: Memorie minoritiche dal 1560 al 1776, in Misc. Franc. 33 (1933) 80a; Sparano D.: Siciliensis Provinciae ord. min. conv. conspectus historicus; Abate J.: Series episcoporum ex ord. fr. minorum conv. assumptorum ab anno 1542 ad annum 1930, in Misc. Franc. 31 (1931): data di morte 1593; Cappelletti, XIX: data di nomina 8 Gennaio; Eubel III 177; AC 11 f. 137, 14 f. 33; Ughelli VIII col. 237; Iacobelli, data di morte 1588.
38. MODESTO GAVAZZI (Magister Fr. Modestus Gavazzi Ord. Minorum Conv.).
Fra Modesto (il cognome è errato in Ughelli «Guazzetti», e in Superbi «Guazzi») nacque a Ferrara verso il 1555-58. Entrò fra i Minori Conventuali, divenne Maestro di Teologia e insegnò negli studi del suo Ordine. Nel 1598 era Reggente dello studio teologico di Ferrara. Ma soprattutto divenne oratore sacro rinomato in molte città d’Italia, tanto che Papa Clemente VIII in persona lo volle ascoltare. Riscontrata tanta dottrina e leggiadria di racconto, lo nominò vescovo di Alife il 7 Agosto 1598.
A questo punto le cronache locali mostrano un aspetto contrastante dell’uomo. Per Trutta fu «uomo di cervello torbido ed inquieto, anzi litigioso», al punto da provocare un violento urto di competenze con il clero di Piedimonte, e S. Maria Maggiore in specie. Il 26 Febbraio 1600, S. Maria Maggiore ricorre alla Congr. dei Vescovi e Regolari: il Vescovo cuol restringere la cura d’anime al solo arciprete e toglierla al collegio. Questo ed altro (25 dubbi) fu inviato a Roma. Il 21 Febbraio 1601 la Congr. gli dà torto. Indispettito, dicono i cronisti, stacca San Potito da S. Maria Maggiore, e il 14 Aprile vi erige la parrocchia indipendente. Non basta la sconfitta. L’anno dopo, il 3 Gennaio, non fa fare l’elezione dei Curati all’Annunziata e a S. Croce di Castello: volle che le tre parrocchie-collegiate proponessero a lui «persone idonee», entro tre giorni, per la cura d’anime (ma non erano già tutti canonici-parroci?).
Nel 1603 la malattia lo costringe a patti. Vuole curarsi a Ferrara, e chiede un sussidio caritativo proprio alle Collegiate, e queste, riunitesi il 30 Settembre in S. Maria Maggiore gli dettero un terzo delle rendite che derivavano loro dall’Università.
Gavazzi morì nell’Agosto 1608, e il suo successore fu nominato il 24 Settembre. Impossibile che sia stato assente per cinque anni. Stando agli scrittori ferraresi, morì in diocesi l’anno 1610 (invece è il 1608). Era dunque tornato.
Pubblicazioni: Prediche quaresimali e annuali (scritte in italiano, come dice P. Sparalea, oggi perdute).
Bibliografia: Eubel IV 78 (AC 13 f. 104); Libanori A.: Ferrara d’oro imbrunito (Ferrara 1665) I, 95; Sparalea G.: Supplementum ad scriptores trium ordinum s. Francisci II, 120; Superbi Ag.: Apparato de gli huomini illustri della città di Ferrara (Ferrara 1620); Trutta: 4 Sec. mss. 182.
Dal manoscritto di S. Maria Maggiore (pag. 189) diamo il sunto dei venticinque punti del ricorso contro il vescovo Gavazzi (nel mss. detto Guazzetti):
I Dubbio: Quando il Vescovo viene a pontificare in S. Maria Maggiore, i 12 Canonici devono andare tutti ad accompagnarlo (in mozzetta), o metà deve restare in chiesa? Risposta: Metà lo accompagni, e metà serva la chiesa.
II D.: La messa cantata festiva si deve cantare prope meridiem? R.: L’ebdomadario, d’inverno aspetti fino a 17 ore (ore 11 italiane), e d’estate fino alle 12 e mezza italiane.
III D.: Nei tempi piovosi nevosi si può fare uso di cappello e cappa? R.: Si può.
IVD.: La cura d’anime di S. Maria Maggiore dev’essere esercitata dall’Arciprete? R.: I canonici deputeranno due che, approvati dal vescovo la eserciteranno per un anno (fra cui l’arciprete).
V D.: Qualche canonico è obbligato a risiedere a San Potito per la cura d’anime? R.: Vi si può deputare un prete curato se gli uomini di San Potito diano ogni volta abitazione, olio per la lampada e frutti certi.
VI D.: Il vescovo si può servire di carceri (ecclesiastiche) senza finestre e comodi? R. Il vescovo si servisse del campanile per carcere; in quelle che ha preparate facesse finestre e comodi.
VII D.: La curia può servirsi per i suoi atti di tassa stabilita da lui? R. Siano inviate a Roma, che provvederà la tassa antica e quella di Benevento.
VIII D.: Si può costringere i sacrestani a fare la citazione? R. Si può costringere se non vi siano altri, e non siano in sacris.
IX D.: Nal fare la visita, il vescovo può esigere la sportula dall’Annunziata? R. Non deve pigliar niente dall’Annunziata e da S. Maria Maggiore.
X D.: Può forzare chi contrae matrimonio a dare due galline? R. Può pigliarle sponte dantibus, se son date spontaneamente.
XI D.: Da chi muore senza testamento può pigliare ultra solitum? R. Niente più del solito, e quanto piglia deve dare ai poveri.
XII D.: Può esigere alcun diritto pe la licenza di far mercato in giorno festivo? R. Nessun diritto.
XIII D.: Può imporre di precetto la festa di S. Francesco sotto pena di censura? R. Cessasse da simile stranezza.
XIV D.: Può scomunicare chi non osserva le feste? R. Assolvesse gli scomunicati.
XV D.: Può impedire ai congiunti di fare le esequie a loro beneplacito? R. Nessun impedimento; e se volesse impedire la sepoltura per 24 ore, lo facesse in chiesa.
XVI D.: Può impedire ai curati di far le denunzie dei matrimoni, e celebrarli senza sua licenza? R. Non occorre la licenza.
XVII D: Al Vicario del vescovo spetta la doppia anche se non interviene? R. Se non interviene spetta niente.
XVIII D.: Il vescovo è per forza il depositario delle multe, e può distribuirle a chi crede? R. Può fare il depositario, ma le deve distribuire ai luoghi pii e ai poveri.
XIX D.: Occorre la sua licenza per sonare a morto? R. Non è necessaria.
XX D.: Può far ridurre tutto il suo grano in farina, per venderlo a più caro prezzo? R. Vendesse senza macinarlo.
XXI D.: Può esigere multe pro male ablatis (mal tolto) anche da chi non lasciava cosa per questo? R. Non esigesse niente.
XXII D.: Può proibire interrogatori in caso di ad repetenda res? R. Lasciasse fare gl’interrogatori a chi vuol farli il fisco, poiché già sono in spesa.
XXIII D.: Può fare franchi gli ecclesiastici più di quanto comporti la loro parte? R. Non può.
XXIV D. e R. mancano a pag. 187.
XXV D.: Può far uso della franchigia della sua casa per quanto gli piace? R. Non può, e non desse occasione di sospettare.
39. VALERIO SETA (frater magister Valerius ord., servorum Mariae).
Nacque a Verona. Entrò fra i Serviti e divenne un preparato teologo. Resse per molti anni lo studio del suo ordine, e il coltissimo card. Bonifacio Bevilacqua lo volle per suo teologo. Seta scrisse anche la storia della famiglia di lui. Erano i momenti critici della guerra dell’interdetto fra Papa Paolo V e la Serenissima. Seta si schierò per il Papa, ma quel che scrisse, perché oggi introvabile, non ci fa sapere la reazione del Governo veneto nei suoi riguardi.
Il 24 Novembre 1608 fu nominato vescovo di Alife. Aveva 46 anni.
Pensò a un decoroso episcopio. Nel 1611 acquistò a Piedimonte, alla Crocevia, una casa, come si è detto, e l’adattò spendendovi 1.300 ducati. Ebbe una causa a Roma riguardo al beneficio della famiglia Gargaglia in Alife, e per essa si ebbero nel 1629 tre decisioni (addotte dal P. Alfonso Leone nel suo lavoro De officio capellani). Ma la stima per lui è testimoniata dal fatto che la Congr. dei vescovi e regolari, fin dal 1611, gli aveva richiesta l’informazione giudiziale circa il trasferimento della Cattedrale di Telese a Cerreto vecchia, nella chiesa di S. Leonardo, restaurata e didicata alla SS. Trinità dal vescovo Bellocchi. Dal suo parere favorevole era venuto il decreto, il 12 Maggio 1612.
Morì nel 1624.
Pubblicazioni: Compendio historico dell’origine discendenza attioni et accasamenti della famiglia Bevilacqua (Ferrara 1606).
Bibliografia: Eubel IV, 78; data della consacrazione in AC 14 f. 109; maestro di Teologia AM 97 f. 98; Ciarlante IV 407; Iannacchino: Telesia 273; Maffei: Verona illustrata V, 246; Crescentius: Presidio romano III, 127; Di Lello R.: (sul vescovo Bellocchi di Cerreto) La biografia di tredici vescovi telesini in una lettera di C. Petrillo (Piedimonte 1978).
40. GIROLAMO ZAMBECCARI (Magister Fr. Hyeronimus Zambeccari Ord. Praedicatorum).
Nacque a Bologna da nobile famiglia. Entrò fra i Domenicani, conseguì la laurea in utroque, insegnò teologia nello studio della provincia di Lombardia, ed ebbe l’incarico di Inquisitore nelle città di Reggio e di Faenza. Il 17 Marzo 1625 fu nominato da Papa Urbano VIII vescovo di Alife.
In quell’anno spedì a Roma una relazione sullo stato della diocesi. Pure nel ’25 eresse in S. Maria Maggiore il Monte dei Morti del SS. Sacramento. L’inizio era buono, ma l’indole bollente dell’uomo prevalse e si arrivò alle brutte.
Un ricorso spedito nel 1632, decise sul suo trasferimento, chiesto in ultimo dal vescovo stesso.
Le accuse erano: 1. Scomunica al Duca Gaetani che aveva fatto carcerare il mastro di atti vescovili; 2. divieto di arrestar un ecclesiastico dalla corte civile, anche se lo portano alle sue carceri; 3. Ha ordinato un numero esagerato di preti, 58 in più del vescovo precedente, per cui in Piedimonte i preti sono 239; 4. Voleva fittare a basso costo le gabelle della farina dell’Università; non essendovi riuscito, pretende la franchigia nella molitura per i preti, o scomunica; 5. Tenta di aizzare contro il Duca, facendo pregare nelle chiese «contro l’oppressione dei Préiti e de’ poveri che si fanno in Piedimonte», ed ha proibito il mercato di Lunedì se è giorno festivo; 6. Ha proibito la macinazione nei mulini ad acqua nei giorni festivi; 7. L’anno scorso ha ordinato ai gabellotti della farina di non pagare a persone che dovevano prima pagare lui; 8. Ha invalidato l’accordo fra clero e Università poiché il clero doveva essere esente dalla somma pattuita. 9. Ha scomunicato 13 Eletti dell’Università che hanno fatto la nuova tassazione senza averne parlato prima con lui, e li ha perfino minacciati dalla finestra. 10. Non vuole che la Corte civile vada a fare esecuzione in case dove abita un prete, ed ha scomunicato il Duca e i birri che avevano fatto una di queste. 11. Ha cominciato a ordinare in Piedimonte chierici coniugati. 12. Ha scomunicato i due ultimi governatori per affari del loro ufficio, perché non stanno d’accordo con lui. 13. Vuole lui giudicare i casi misti, fra cui quello di uno, ultimamente assolto dalla Corte civile. 14. O i gabellotti della farina comprano il grano del vescovato a prezzo maggiore o dà ai preti quanta franchigia vogliono. Per una evasione evasione dal carcere vescovile ha fatto arrestare la famiglia dell’evaso.
La conclusione fu il trasferimento l’11 Aprile 1633. Fece il cambio di diocesi col vescovo di Minervino in Puglia. Lo storico domenicano Fontana, in S. Thetrum Dom.num, 122 riporta il trasferimento come voluto dallo stesso Zambeccari: «…Verum exortis litibus inter ipsum et Laurenzani Ducem ex nobilissima Caietana familia, Alliphanae civitatis et Pedemontium Principem, causa jurisdictionis, Hyeronimus suae quieti consulturus, Minervinam sedem… transferri procuravit, et obtinuit anno 1633».
Bibliografia: Eubel IV, 78; P. Dat. 1625 ff. 159-169.
41. GIAN MICHELE DE ROSSI (Magister Fr. Johannes Michal de Rubeis, Carmelitarum).
Nacque a Somma Vesuviana da Marcantonio, nel 1583. Il 14 Maggio 1595, a soli dodici anni, entrò nell’ordine Carmelitano, nel convento del Carmine Maggiore di Napoli. Dotato com’era di intelligenza ed attitudini, divenne maestro di Teologia, e percorse il cursus honorum di tutte le cariche dell’Ordine: prima fu eletto Provinciale di Abruzzo, nel 1622 priore del Carmine Maggiore di Napoli, nel ’24 Provinciale di Napoli e Basilicata, nel ’28 priore del convento generalizio della Traspontina in Roma, nel ’30 Procuratore generale dell’Ordine presso la S. Sede. Come tale presiedette il capitolo generale delle provincie napolitane delle quali fu Visitatore e Commissario. Fu anche Qualificatore dell’Inquisizione nel regno partenopeo.
Da Papa Urbano VIII, il 10 (o il 12) Gennaio 1633 fu nominato vescovo di Minervino in Puglia, sede che mutò subito, l’11 Aprile, con quella di Alife, da dove andava via Zambeccari. A Piedimonte, mons. Rossi si trovava più vicino alla curia provincializia del suo ordine per il quale aveva lavorato tutta la vita.
Morì il 22 Dicembre 1638, e fu sepolto nel convento del Carmine in Piedimonte.
Bibliografia: Ughelli: VII 747, e VIII 297 porta la data del trasferimento al 14 Marzo; Eubel IV 78 (AC 17 f. 39); manoscritto di S. Maria Maggiore porta la data del trasferimento al 14 Maggio; Iacobelli, data della morte al 1639; Cosmas de Villiers: Bibliotheca Carmelitana (Aurelianis MDCCLII) II 943; Quagliarella T.: Il Carmine Maggiore di Napoli (Taranto 1932) 206; Ventimiglia M.: Uomini illustri del Regal Convento del Carmine Maggiore di Napoli (Napoli 1756) 96. Molti documenti e notizie nell’archivio generalizio dei Carmelitani in Roma fornite dal padre Emanuele Boaga segretario generale.
42. PIER PAOLO DE MEDICI (Petrus Paulus Medices).
È il pastore di santa vita della chiesa alifana.
Patrizio fiorentino, del ramo di Casa De Medici detto di «Lungarno», nacque a Firenze, terzogenito di Orazio colonnello nell’esercito granducale, e di Camilla della Robbia. Dal 1624 canonico di S. Maria del Fiore, vestì presto l’abito dell’Ordine di S. Stefano dalla croce rossa a otto punte, e il 2 Giugno 1652 raggiungeva in quell’Ordine cavalleresco il grado di Balì del Delfinato.
L’11 Aprile 1639 fu nominato vescovo di Alife da Papa Urbano VIII, e restò in sede 17 anni. L’8 Dicembre 1640 consacrò la rinnovata Annunziata; il 22 Luglio 1642 donò a S. Maria Maggiore la prima reliquia di s. Marcellino, dando inizio al culto per lui; il 10 Giugno 1651 fondò il seminario.
La morte venne il 22 Ottobre 1656. La peste che spopolava il reame, aveva ridotto a metà la popolazione di Piedimonte e dei casali (9.060 abitanti nel 1648, 4.645 nel 1669), le chiese restavano vuote e non officiate, ognuno evitava l’altro, e chi poteva, fuggiva in campagna. I paesi vivevano isolati. Proibito rigorosamente l’accesso. Ancora convalescenti venivano ora portati a Castello per l’aria mossa e leggera. E a Castello egli si trovava in Ottobre ad amministrare i Sacramenti, coraggioso e pio, e ne fu contagiato, e morì. Semplice e commosso l’elogio di Ughelli: «…defunctus est in contagiosa lue, mense Octobris, anno 1656, dum pro sibi commendato grege, intrepide infirmis ac peste tactis administraret, boi sane pastoris exemplar futurus, quippe qui, qua virtute, qua constantia, animam pro ovibus sui posuit». Per il gregge a lui affidato aveva dato la vita!
È sepolto nell’Annunziata. Scelse quel luogo per la sua devozione alla Vergine venerata sotto quel mistero. Vi confluiva la pietà per i suoi, che nella Annunziata di Firenze tenevano il loro secolare sepolcro. Non si sa il posto preciso della sepoltura. Nel 1940 fu solennemente commemorato.
Bibliografia: Archivio di Stato di Firenze; Archivio privato De Medici Tornaquinci; Eubel IV 78 (AC 17 f. 183, e P. Cons. 37 f. 155), anno di morte 1657 errato; Litta: Famiglie celebri d’Italia, tav. XIX; Marrocco D.: Documento XVII (per la storia dei paesi del Medio Volturno): La bolla di fondazione del seminario alifano a Castello (Napoli 1975).
43. ENRICO BORGHI (magister Henricus Ord. Servorum Mariae).
Nacque a Castenuovo di Scrivia, diocesi di Tortona. Entrò fra i Serviti, e ne divenne Priore generale.
Il 25 Febbraio 1658 fu nominato vescovo di Alife, dopo quasi due anni di sede vacante. Prese possesso il 22 Novembre 1658, ma morì otto giorni dopo l’arrivo, il 30 Novembre, e fu sepolto per carità in S. Maria Maggiore a Piazzetta.
Bibliografia: Eubel IV 78: AC 20 f. 35 n. 7: reservata pensione 200 scutorum pro personis nominandis…; Cappelletti XIX 111: nato a Roma; Manoscritto di S. Maria Maggiore: nome errato: «Borgia».
44. SEBASTIANO DOSSENA (frater magister Sebastianus o.c.r.s.B.).
Di nobile famiglia, nacque a Milano da Ferdinando e da Caterina De Nobili, e fu battezzato il 5 Marzo 1605. Fra i Barnabiti entrò il 10 Ottobre 1619, e fece la professione religiosa il 18 Aprile 1621 in S. Maria del Carrobiolo a Monza. Il 17 Dicembre ’22 ricevé la tonsura dal Cardinale arcivescovo Federico Borromeo, poi, il 10 Marzo ’29 divenne sacerdote, a Roma. Studiò a Roma, a S. Carlo ai Catinari, e divenne teologo e ricercato oratore di quaresimali in molte città d’Italia. Nel ’32 predicò a Pavia, e lì restò quale preposto di quella casa nel 1638-41, e in quel periodo fu anche confessore della principessa Margherita di Savoia. Nel ’42 passò preposto del collegio S. Alessandro di Milano, vi insegnò e costruì tanto da esser chiamato vir strenuissimus. Nel ’45 fu eletto Provinciale di Roma, e l’anno dopo gli affidarono anche la prepositura di S. Carlo nell’urbe. La stima che se ne aveva gli causò missioni più difficili. Ed eccolo destinato al collegio S. Bendetto a Praga, in Boemia. Dopo la guerra dei Trent’anni, Casa d’Austria faceva ogni sforzo per far ritornare cattolica la Boemia sconvolta dai Protestanti Fratelli Moravi. Avevano così mal ridotto il collegio barnabita di Praga che padre Dossena dové chiedere l’elemosina per vivere e insegnare. Gli venne incontro l’arcivescovo Cardinale Ernst von Harrach che lo nominò suo teologo e assessore nel concistoro.
Capitolo III – Cattedrale e Collegiate
Il capitolo della Cattedrale
Origine e costituzioni. – Non si ha traccia di un collegium di sacerdoti dal V al X secolo.
Negli anni intorno al Mille si trova un nucleo di ecclesiastici unito al vescovo. Insieme con Vito firmano un atto, l’anno 987, Cennamus diaconus, Johannes diaconus, Guimundus presbyter, Aczo (pronunciato Accio) presbyter, Benedictus subdiacomnus. Queste firme però non portano a concludere all’esistenza di un Capitolo regolarmente costituito, con canonici e dignitari.
Nel 1252, Papa Innocenzo IV raccomanda al Capitolo Magister Alferius, canonico alifano. È la prima notizia del Capitolo.
Nel ‘300 il Capitolo appare nelle Rationes decimarum (Rat. Dec. Campania, 190), e risulta tassato per tarenos X, e nel 1328 la tassa è portata a 15 tarì. Ecco il testo:
1308 Archidiaconus alifanus pro beneficiis suis que valent uncias VI, solvit tarenos IX (con i residui)
Primicerius dicte Ecclesie s. tarenos VI.
Capitulum alufanum tarenos IX.
1328 Capitulo alifano tarenos XV.
Titolare e patrona del Capitolo è s. Lucia, la martire siracusana, e l’effige di lei appare nel sigillo.
Da quando fu aperta al culto la Cattedrale edificata dal conte Rainulfo, il Capitolo vi ebbe sempre la sua sede.
Crollata nel 1688, il Capitolo si trasferì a s. Maria la Nova ma siccome la chiesa era umida, i canonici piedimontesi ottennero dalla congregazione del Concilio che l’ufficiatura, salva Cathedralitate, fosse portata in altra sede, stabilita dall’ordinario. Il vescovo De Lazzàra la trasferì all’Annunziata di Piedimonte, dietro decreto di quella congregazione, del 26 Luglio 1690.
L’Università di Alife, ricostruita la Cattedrale, invitò i canonici a tornare, ma quelli si rifiutarono a causa della malaria e della via impraticabile. Dopo ricorso di Alife, la Congregazione il 15 Maggio 1692 ordinò di tornare. Nuovo rifiuto dei canonici, e nuovo ordine della Congregazione, il 15 Aprile ’93. Ancora un rifiuto.
Alife ricorre all’arcivescovo di Benevento, affinché faccia applicare il decreto.
L’arcivescovo Orsini viene sul posto, osserva e, il 15 Aprile 1693 si ha il decreto della congregazione sinodale. Niente.
Si arriva al 19 Aprile ’99, quando si ha l’ordine perentorio o ritorno o sequestro delle rendite.
Il numero dei canonici è stato per secoli di sei, oltre ai due dignitari, l’arcidiacono e il primicerio. È infondata la notizia che in passato fossero stati ventisei.
Nel 1565 firmarono il ricorso contro il vescovo Nogueras due dignitari e sei canonici. Lo stesso numero si ha nel 1676. Nel 1752 ne troviamo invece dodici.
Nel 1861 il vescovo Di Giacomo aggiunse i sei cappellani di s. Caterina, tre come canonici e tre come suddiaconi. Per questo il coro ha diciotto posti.
Un sinodo romano del 1735 emanò direttive riguardo agli statuti.
Un primo statuto del Capitolo, oggi è introvabile. Il 6 Agosto 1889 i canonici approvarono un nuovo statuto preparato dal can. Vincenzo di Buccio, completamente autonomo dalle direttive.
Con la codificazione del diritto canonico nel 1917, lo statuto dovette essere rifatto. Il 13 Maggio 1920 l’incarico fu dato al can. Pasquale Tartaglia. Questi preparò un vero e proprio trattato, che fu ritenuto esorbitante da una commissione di canonici, e respinto.
Il vescovo Noviello affidò la riforma dello statuto ai canonici G. di Caprio, F. S. Finelli e M. di Muccio, e il testo fu approvato dal vescovo il 9 Ottobre ’42, per un anno, e definitivamente l’anno dopo.
Le costituzioni capitolari della Cattedrale di Alife, conformate all’art. 459 C. J. C., si compongono di sette paragrafi. Da notare che la prima parte dell’art. 1 è storicamente infondata.
Il parroco di Alife non apparteneva al capitolo.
Con Real Dispaccio del 2 Marzo 1782, e con delibera del 6, fu annesso al capitolo un altro canonicato con cura d’anime, mansione prima esercitata da un prete extra gremium.
Il 1 Giugno 1790, il vescovo Gentile dichiarò in apposita bolla che la carica di curato era di libero conferimento vescovile, e perciò si doveva chiamare «canonico curato» e non «vicario curato».
Fra l’altro, dallo statuto si ha notizia delle insegne.
Stando a Trutta, fino al vescovo Isabelli (1735-52) i canonici avevano usato rocchetto e mozzetta violacea.
Riguardo alla sottana violacea le notizie sono contrastanti. Il 17 Settembre 1726 la Congregazione del Concilio concesse l’uso della zyrma, ossia sottana violacea con collare e zona, ossia fascia a due fiocchi. Altra notizia invece è che la sottana violacea caudata, fu concessa da Re Ferdinando IV nel 1789 su richiesta del vescovo Gentile, «per impedire li passaggi che li canonici della Cattedrale facevano spesso nelle suddette Collegiate».
Il 23 Giugno 1917, Papa Benedetto XV, su richiesta del vescovo Del Sordo concesse il palliolum, cioè la matelletta violacea. Così l’abito prelatizio era completo.
La tipica insegna dei cavalieri e dei canonici, la lacerna, ossia la cappa, di tessuto viola, rialzata sulla spalla sinistra, era ricoperta di pelliccia bianca dal 31 Ottobre all’antivigilia di Pentecoste. Ciappe d’argento tenevano sospeso il cappuccio, e dal fianco sinistro pendeva lo stolone violaceo con nocche amaranto.
Quanto alla mozzetta papale almùtia, che sostituì quella violacea, s’ignora la data non lontana di concessione. È probabile ai tempi del vescovo Puoti che la concesse anche all’arciprete di San Gregorio.
Queste insegne così caratteristiche e distinte, nel 1972 sono state sostituite da un mozzetta nera.
La frequenza al coro anticamente era di obbligo due volte al giorno per l’intero Capitolo.
Data la situazione eccezionale secondo cui la maggior parte dei capitolari veniva da Piedimonte, si ebbe il decreto della Congregazione del Concilio, per cui l’ufficio divino veniva recitato per intero nella sola mattinata.
Sempre a causa del dispendio economico, il 20 Giugno 1789 fu emanato il decreto della Real Camera di s. Chiara, per la frequenza a settimana alternata, disposizione che fu confermata l’11 Marzo 1911 dalla Congregazione del Concilio. Il 10 Maggio 1962 la stessa Congregazione autorizzava i canonici per un triennio, a intervenire al coro nelle sole domeniche e il 2 Febbraio, Mercoledì delle Ceneri, Giovedì e Venerdì santo e 10-11 Agosto.
È del 2 Gennaio 1741 una costituzione per cui i canonici della Cattedrale devono assistere il vescovo anche a Piedimonte.
Arcidiaconi e primiceri
Non è stato possibile ricostruire, anteriormente al 1688, almeno la serie dei dignitari del Capitolo.
Oltre ai quattro che salirono sulla cattedra vescovile – Giovanni Alferio, Angelo Sanfelice, Giovanni Bartolo, Angelo Sarro, cinque a volervi includere Vito diacono – troviamo nel 1565 Ascanio de Notariis.
Lo stesso va detto per i primiceri, uno dei quali Gabriele Ventriglia, nel 1852 fu nominato vescovo di Caiazzo. Nel 1535 viveva Loisio Acilio, nel 1565 Troiano Mirillo (Milillo?).
Dal 1688 le due serie sono complete. Arcidiaconi: 17 V 1690 Francesco Pezza (di Piedimonte); 16 V 1710 Domenico de Benedictis (Piedimonte); 2 II 1722 Francesco Pierleone (Piedimonte); 12 IV 1727 Saverio Paterno (Piedimonte); 11 X 1744 Silvestro Scasserra (Piedimonte); 10 X 1773 Cesare Cardelli (Piedimonte) 15 X 1775 Raffele de Cesare (Raviscanina); 1 IV 1798 Giacinto Cirioli (Alife); 7 I 1803 Vincenzo Meola (Piedimonte); 1 IX 1850 Ottavio Scappaticcio (Piedimonte); 4 II 1863 Luigi Cornelio (Alife); 30 VI 1881 Francesco Ferrurri (Alife); 22 II 1888 Luigi Paterno (Piedimonte); 5 VII 1896 Giuseppe Prota (Piedimonte); 24 XII 1899 Bernardino d’Orsi (Piedimonte); 10 X 1910 Domenico Macchiarelli (Alife); 28 VII 1932 Giuseppe Colella (Alife); 14 I 1938 Girolamo Di Caprio (Alife); 26 V 1965 Michele Di Muccio (Piedimonte); 1 II 1975 Francesco Corsini (Alife).
Primiceri: 15 X 1690 Stefano de Angelis (Piedimonte); 8 VI 1700 Nicola Coridano (o Giordano, Piedimonte); 23 II 1706 Giuseppe Perrino (Piedimonte); 9 VII 1710 Nicola De Stefano (Piedimonte); 20 VI 1730 Francesco Meola (Piedimonte); 24 VI 1735 Francesco De Marco (Piedimonte); 20 IX 1736 Pasquale De Stefano (Piedimonte); 13 I 1741 Filippo Iannitelli (Piedimonte); 4 VII 1756 Ignazio de Benedictis (Piedimonte); 2 VII 1779 Pasquale Giorgio (Piedimonte); 29 XII 1822 Gabriele Ventriglia (Piedimonte); 3 VI 1850 Giuseppe Fiondella (Calvisi); 9 III 1862 Luca Panella (Alife); 31 XII 1879 Francesco Ferrucci (Alife); 30 VI 1881 Giuseppe Prota (Piedimonte); 1 II 1897 Bernardino d’Orsi (Piedimonte); 15 IV 1900 Vincenzo La Catena (Piedimonte); 8 XII 1906 Domenico Macchiarelli (Alife); 20 VIII 1911 Giuseppe Amato (Alife); 26 III 1931 Giangiuseppe Pacella (Piedimonte); 8 V 1937 Luigi Vastano (Piedimonte); 15 VII 1947 Pasquale Panella (Alife); 21 VII 1959 Egidio Ciaramella (Alife); 14 XI 1964 Raffaele Ricigliano (Piedimonte).
Non trovata la nomina di Michele Rossi Primicerio alifano, fra i teologi del concilio regionale di Benevento nel 1695. Lo stesso per Gaetano di Renzo, † 1800.
LA COLLEGIATA INSIGNE DI S. MARIA MAGGIORE
La storia di questa Collegiata, nella sua ascesa durante i secoli XVI-XVII-XVIII, fa da parallelo nel campo ecclesiastico allo sviluppo di Piedimonte di cui è chiesa madre, matrix.
L’origine giuridica della Collegiata di s. Maria, come delle altre, risale al 1417, al regolamento del vescovo Sanfelice.
La parrocchia collegiale derivò dalla riunione, in s. Maria, dei rettori delle piccole chiese di Piedimonte: S. Maria, S. Arcangelo, S. Maria degli Angeli, S. Benedetto (oggi Pietà), S. Pietro (incorporata a S. Domenico), e S. Caterina a San Potito: una cura d’anime fatta collegialmente da tutti i parroci in una sola chiesa.
I canonici curati riuniti in S. Giovanni non si capisce da quali altre parrocchie derivassero. Certo, se la bolla dell’arcivescovo Capace di Benevento è autentica, si dovettero riunire presto ai loro colleghi in S. Maria; se non è autentica, come sostiene Trutta nella Cronaca di quattro secoli, S. Maria ebbe fin dal primo ‘500, dodici canonici-parroci.
Dal 1417 il territorio della Collegiata termina al Toranello (oggi Maretto), che però fu spostato dalla sinistra alla destra del Carmine (ove scorre tuttora), abbraccia l’intero Cila; termina pure con la tesa dopo la cappella inferiore sulla via vecchia di Castello, e abbracciava le montagne fino al confine con Gioia; in pianura seguiva il corso di Torano vecchio. Per il distacco di San Potito e di Spicciano, il confine è arretrato.
Il confine con San Potito, dal 14 Aprile 1601, per decreto del vescovo Gavazzi, oggi segue quello dei due comuni, dal Purgatorio alla Cappella.
Il confine con Spicciano, dal 3 Ottobre 1696 per decreto del vescovo de Lazàra, segue il vallone d’Agnese fino alla confluenza nel Torano.
La giurisdizione della Collegiata sul territorio appare da autorizzazioni e divieti.
Nei primi anni del ‘700 il Capitolo vieta al padre Cuzzani l’erezione di una casa dei chierici regolari minori allo Scorpeto. L’assenso ci fu invece nel 1710 alla duchessa Aurora Sanseverino Gaetani per la costruzione della chiesa superiore della Madonna delle Grazie a Cila, che sta al confine della parrocchia: «Niente si negò alla Signora Duchessa per opera sì lodevole e santa».
Il diritto ad andare processionalmente nella chiesa della Trinità, oggi s. Lucia in territorio di Vallata, per celebrarvi la festa della Trinità, già accennato nell’art. 35 del laudo del vescovo Sanfelice, esiste sicuramente dal ‘300.
Lo sviluppo diciamo «interno» di questa chiesa non può essere tralasciato.
Dalle bolle di Callisto III, Nicolò IV e dell’arcivescovo Capace risultano 7 canonici in S. Maria, 5 in S. Giovanni.
Il 22 Dicembre 1581, il vescovo Santoro, da Roma, dichiara già esistenti i due gruppi in S. Maria. La bolla Ex injuncto adduce la ragione che S. Giovanni, in alto, non è frequentata: «…Et pro majori populi dictae terrae devozione… ac in eadem ecclesia cultus divini aumento, sex canonicatus, et totidem praebendas in ecclesia sancti Johannis Baptistae dictae, terrae Pedemontis, ad conventum Christifidelium minime apta, et fere inaccessibili, et non frequentata, existentes, et populi dictae terrae devozione in eam in dies refrigescente, sita inibi suppressimus et extinximus, totidemque canonicatus et praebendas… in eadem ecclesia beatae Mariae pro sex Canonicis… una cum aliis, unum Capitulum efficerent…ereximus et instituimus». Ma quando? Non dice la data. Il vescovo stava in diocesi dal 1569.
Trutta nella Cronaca presenta un atto del Notaio Aquilante de Martinis di Piedimonte, del 1533, secondo cui l’arciprete e undici canonici di S. Maria affrancano una certa rendita; e negli anni 1522-49, ricevono derrate e denaro dal procuratore… Dove sta l’errore?… Non solo: ma se i canonici di S. Giovanni erano parroci, era possibile che non si parla di un territorio di loro giurisdizione?… ed erano sei o cinque?
L’arcipretura. – Se è incerta la questione dell’unione fra i due collegi ecclesiastici di Piedimonte, con data sicura, 22 Dicembre 1581, è l’atto con cui fu fissato in S. Maria Maggiore l’arciprete di Piedimonte quale dignitario della collegiata. È chiaro che la carica vi stava da tempo. La bolla Ex injuncto fu fatta per l’arciprete Paterno.
S. Maria riteneva la prima dignità ecclesiastica di Piedimonte, e questa fu l’altra ragione del suo primato, e della qualifica di Maggiore, che dal ‘500 in poi troviamo unita al titolo antico.
L’arcipretura, già riportata nelle Rationes decimarum del 1325, certamente prolunga l’esistenza a secoli prima, ma piuttosto come un incarico che come beneficio, come dignità in seguito nominata sempre con la bolla pontificia dietro concorso. Le entrate però erano scarse, dice Santoro: «…fructus, redditus et proventus adeo tenues et exilis existunt, ut archipresbyter ejusdem Ecclesiae pro tempore existens, nedum se ex illis juxta sui gradus qualitatem, decenter mantenere, sed ne vix quidam tenuissime se substentare valeat».
Trentasette anni dopo, il vescovo Genovese, nel suo arbitrato fra arciprete e canonici, del 18 Dicembre 1618, ne stabilì diritti ed onori: primo fra tutti i preti di Piedimonte e casali in qualsiasi manifestazione: «…referendum esse omnibus Canonicis S. Mariae Majoris, et toto Clero dictae Terrae et Casalium…». La prebenda doveva esser quella del canonico più anziano. Il 26 Gennaio 1620, la congr. dei Riti l’approvò definitivamente.
La bolla di nomina veniva spedita per semplice segnatura, data la mancanza di rendita. Nel 1775 il vescovo Sanseverino spedì la nomina all’arciprete Trutta, ignorando che spettava al papa, con autorità ordinaria, in quanto godeva della sola preminenza e della doppia distribuzione.
Da chiarire un ultimo dubbio. Data l’importanza che la carica aveva per Piedimonte capoluogo del distretto, a chi spettava? Al più vecchio o al più meritevole? Altra causa famosa, per la quale si arrivò in consiglio di ministri. L’8 Marzo 1835, Re Ferdinando II ordinò che per la provvista dell’arcipretura di Piedimonte si applicasse il concordato del 1818: l’art. 10 riservava alla S. Sede la nomina di ogni primo dignitario di capitolo. La perorazione dell’arcidiacono Scappaticcio aveva prevalso.
Una volta annessa l’arcipretura di Piedimonte a un canonicato di S. Maria Maggiore, qualsiasi tentativo di separare era assurdo. Tanto tentò di fare l’arciprete Gian Angelo de Nozze: tenersi l’arcipretura (com’era stato per secoli), e dare al nipote, canonico Potenza, il canonicato.
Nel 1700 ottenne la separazione dalla Datarla apostolica. Ma i canonici ricorsero al Papa. L’avv. Domenico di Tommaso, un piedimontese di gran notorietà a Napoli, difese zio e nipote servendosi della bolla del vescovo Santoro, ma a nulla valse. Il 23 Dicembre 1706, la Segnatura di giustizia ordinò il sequestro dei beni. Scrive Trutta che i due ne morirono di dispiacere.
Ufficiatura e qualifica di «insigne». – Il rito quotidiano collegiale, come nelle cattedrali, ebbe inizio quando il 5 Aprile 1691 (Strumento Notaio Cesare Loffreda) la duchessa Cassandra de Capua Gaetani assegnò una somma per una messa quotidiana, col suono della campana grande all’elevazione. Tutte queste notizie sono esposte nella Cronaca di Trutta.
Nel 1669, per legato di un’altra duchessa, Diana del Capua Gaetani, ebbe inizio la messa conventuale. La pia e munificente signora, che ventisei anni prima aveva donato 50 libbre d’argento per la statua di s. Marcellino, stabilì che in S. Maria Maggiore si recitassero le Ore, e la messa potesse essere applicata per chiunque. Perciò la data del 7 Gennaio 1698 come inizio dell’ufficiatura va riferita all’approvazione per quanto già si faceva da trent’anni. In S. Giovanni i tre canonici ultimi nominati si recavano a recitare gli uffici della settimana santa e dei Defunti. Dal 14 Marzo 1836, autorizzati dal vescovo Puoti, ritennero più utile celebrare tutti insieme in S. Maria.
Come la Cattedrale anche S. Maria ottenne i mansionari. I primi de furono istituiti dal vescovo Puoti, il 16 Marzo 1832. Usarono cotta e mozzetta violacea, ed ebbero una rendita di 50 ducati annui, metà del lascito Iacobelli, e metà del lascito Mastrodomenico. Nel 1834 ne furono aggiunti altri due, col lascito D’Errico.
Ridotto il numero dei canonici a sei, la dispensa dal coro fu data a un canonico per settimana; nel 1920 fu ridotta ai giorni festivi, ed è cessata del tutto nell’immediato Dopoguerra.
Siccome la messa conventuale era applicata per la volontà dei testatori, nel 1707 il vescovo Porfirio impose una seconda conventuale per tutti i benefattori. Il ricorso di S. Maria alla congr. dei Vescovi patrocinato dal celebre Francesco Monacelli, autore del «Formulario», diede ragione ai canonici.
Pure nel ‘600 un altro onore: la qualifica di collegiata insigne. Era il riconoscimento di tanti fatti: il numero dei sacerdoti che la officiavano, la prima dignità, il servizio liturgico quotidiano, il nuovo culto per il patrono s. Marcellino.
Le pratiche per sollecitare il decreto non ci sono ben note. Il decreto proclamava: «Collegiatam Ecclesiam S. Mariae Majoris oppiai Pedemontis, ad omnes juris effectus, Insignem esse, atque ideo honoribus, praerogativis, praeheminentiis, atque privilegiis Collegiatarum Insignium frui, gaudere posse et debere». Così il 9 Luglio 1650 si esprimeva la Congr. dei Riti, e l’originale sta nell’archivio capitolare di S. Maria Maggiore. Dieci anni dopo, Papa Alessandro VII emanò un breve di conferma, il 21 Gennaio 1660, e il 3 Giugno usc’ un altro rescritto che, il 26, fu presentato al vescovo Dossena per l’esecuzione.
Il titolo di basilica
Fu sollecitato dal vescovo Novello, firmato da Papa Pio XII il 24 Dicembre 1945 e controfirmato dal sostituto della Segreteria di Stato Giovan Battista Montini, e giunse a Piedimonte nel Maggio ’46.
Il papa vi si rifà al fatto che Piedimonte è città residenziale del vescovo di Alife, che S. Maria ne è il tempio più grande, omnium maximum, riedificata nel neoclassico del ‘700 classico stylo confectum, che vi convengono la classe dirigente e i forestieri, specialmente per venerarvi le reliquie di s. Marcellino potissimumque (exuvias) sancti Marcellini, e che vi è la cattedra vescovile. Per questo, nel terzo centenario dell’anno (1645) in cui s. Marcellino fu dichiarato patrono di Piedimonte, il ven. fratello Luigi Novello vescovo, a nome suo, dei canonici e dei cittadini ha supplicato che venisse dichiarata basilica.
Il Papa, sentito il parere del Cardinali Salotti Prefetto della Congregazione dei Riti, la proclama basilica minore: smemorata Ecclesiam et Collegiatam – S.e Mariae Majoris titulo et digitate Basilicae minoris officimus et declaramus cum omnibus juribus ac privilegiis rite competentibus.
L’alto onore non comporta la qualifica di «pontificia», come per errore è stato scritto sulla porta, e che spetta quando è di proprietà della S. Sede. L’originale del decreto sta nell’archivio di S. Maria.
Arcipreti di Piedimonte
…1325 Non nominato: paga le decime insieme agli altri ecclesiastici di Piedimonte; 1328. Non nominato: paga 9 tarì di decime; vivente 1417 Non nominato: sta nel Regolamente del vescovo Sanfelice, art. 20; vivente 1499 Gian Crisostomo de Parrillis: edifica la cappella inferiore della Madonna delle grazie a Cila; vivente 27 V 1504 Benedetto Clarelli (o Clavelli): ha tomba in S. Giovanni; vivente 1562-60 Marco Confreda; vivente 1567 Fulvio de Franchis: nel Settembre 1581 promosso canonico palatino a Lucera; 22 XII 1581 Gian Vincenzo Paterno; vivente 1609-18 Pietro Iacobucci; vivente 1620 Domizio de Nozze, de Nuptiis; …Gian Luigi Suave, morto nella peste del 1656; 19 XII 1656 Gian Angelo de Nozze, nominato a 27 anni, arciprete per 51 anni †18 V 1707; vivente 1713-25 Michelangelo Pagano; …Nicola del Stefano †1 VIII 1745; …Antonio de Stefano †6 I 1756; …Gian Felice Meola †8 VIII 1775; …Gian Francesco Trutta †11 XII 1786; …Nicola de Clavellis †3 XII 1788; …Pasquale Paterno †8 V 1804; 25 V 1804 Nicola Gambella †30 I 1811; 5 IV 1812 Carlo Ragucci †4 II 1832; …Filippo Ciminelli †5 X 1838; …Ferdinando Iannucci †7 V 1852; …Luigi Merolla †2 I 1884; …Marcellino Civitillo †13 XI 1904; 24 II 1905 Vincenzo Tartaglia †19 III 1915; 12 X 1919 Gian Giuseppe Pacella, trasferito 26 III 1931 alla cattedrale; 26 II 1933 Luigi della Paolera †19 VII 1962. Dal 1962 la prima dignità ecclesiastica di Piedimonte non è stata conferita.
Bibliografia
su S. Maria Maggiore ampie notizie in tutte le storie di Piedimonte; Trutta Gian Francesco: Cronaca di quattro secoli, mss che l’Associazione Storica va pubblicando sull’annuario; già pubblicato «Secolo XV» su Annuario 1977; Anonimo: Memoria dell’arcipretura di S. Maria Maggiore (Caserta 1834), De Luca card. Giovan Battista: Theatrum veritatis et justitiae (Venetiis 1706); li. III, pars. II De praeheminentiis, a pag. 24: Pro Capitulo Pedimontis cum ecclesiis Castri et Vallatae; Monacelli Francesco: Compendio del formulario legale pratico del foro ecclesiastico (l’allegazione per S. Maria Maggiore sta nel tomo I, additio pag. 33, dell’edizione di Venezia di Baglioni); Quaglia Angelo: Memorie nella confutazione del voto del promotore fiscale nella causa alifana (…); Spennati-Gallotti: Difesa per l’Insigne Collegiata di S. Maria Maggiore.
COLLEGIATA DELL’ANNUNZIATA
È nata anch’essa nel 1417, conseguenza del regolamento arbitrale del vescovo Sanfelice. Con le stesse bolle pontificie della precedente ebbe sei canonici curati, con l’obbligo del coro in comune nei giorni festivi, con le insegne del rocchetto e della mozzetta viola con cappuccio. Esattamente come S. Maria Maggiore, la cura fu esercitata da due per una settimana, poi per un anno, fino al 1867.
Nel 1719 il numero dei sacerdoti che la officiavano fu raddoppiato.
Il raddoppiamento dei canonici era effetto dell’accresciuta popolazione di Vallata, dell’accresciuto clero, e anche di emulazione verso l’altra collegiata.
Le rendite di due confraternite esistenti nella chiesa – il Sacramento e l’Annunciazione – dovevano servire alla prebende dei nuovi beneficiati. Tutto fu preparato dal vescovo Porfirio. Il 9 Giugno 1719, Papa Clemente XI emanò un breve con cui autorizzava il raddoppiamento, che fu munito di Regio Exequatur il 26 Settembre. «Esibita siquidem Nobis nunc pro parte dilectorum filiorum unius SS. Sacramenti et alterius SS. Annunciationis B. M. V. de Vallata nuncupatae Terrae Pedemontis Alliphanae Dioecesis sitarum, modernorum Guberantorum petitio continebat…». Le rendite dovevano servire alla nuova istituzione: «ad aliorum sex canonicatuum praebendarum huiusmodi fundationem, et dotationem, sub infrascriptis conditionibus inter eosdem Gubernatores et sex nunc existentes canonicos dictae Collegiatae Ecclesiae».
L’istituzione dei nuovi canonici portò a un urto di competenze: a chi spettava la nomina?… Pretesero il diritto 1) il Principe di Piedimonte, ma fu escluso, perché era protettore ma non fondatore delle confraternite; 2) l’Università ma fu esclusa perché niente di suo aveva dato per la fondazione; 3) gli Economi delle due cappelle fondatrici; 4) il Vescovo. Ne venne una causa interminabile, discussa nella Real Camera di S. Chiara, che ebbe momenti forti: la Real Camera ritenne abusivo il raddoppiamento e antigiuridico, contra jus publicum erectos fuisse, et irritum ab initio fuisse; arrivò, il 1 Dicembre 1781 una violenta lettera del Re contro le intromissioni del Principe nella nomina; l’Università, vista la piega che pigliavano le cose, li rinunziò al Fisco nel parlamento del 14 Dicembre 1783. Finalmente, dopo altre riunioni del Tribunale di S. Chiara, uscì la sentenza del Cappellano Maggiore: i redditi dei sei derivano da commutazione di testamenti? Ebbene solo il sovrano può legittimare questo. Perciò, l’istituzione canonica è fatta dal vescovo, e la nomina, con Real Cedola, sarà fatta dal Re. Era il caso di dire: fra i quattro litiganti il quinto gode. O così, o annullamento della fondazione. Ma il pientissimus Princeps non volle il detrimento spirituale della popolazione, e tutto rimase. Così, fino al 1860 sei canonici dell’Annunziata furono nominati con Real Biglietto.
Anche l’Annunziata volle i mansionari ad imitazione della Cattedrale e di S. Maria Maggiore.
Dietro richiesta, il vescovo Puoti li istituiva il 25 Aprile 1841. Nella bolla ordinava di dare la destra a quelli di S. Maria Maggiore tum ratione praecedentis institutionis, tum etiam quod principali ac insigni ecclesia fuerunt emancipati. Una mozzetta violacea ne era l’insegna. La rendita era poca: 15 Ducati annui, e 100 messe. I primi furono Abbatelli, Abbraccio, Guglietti e Ricciardi.
Dal 21 Giugno 1734 il Capitolo diede al più vecchio il titolo di Decano. Non costituiva il rango di dignità da nominare con bolla pontificia, e dopo il 1867, quando fu introdotta la cura perpetua, fu annessa all’ufficio di parroco.
In molti documenti dal ‘700 in poi, propri della chiesa, appare la qualifica di «insigne». Manca però il documento pontificio. Nella bolla di Papa Clemente XI è qualificata solo Collegiata.
COLLEGIATA DI S. CROCE
Nessuna notizia se ne ha nelle Rationes decimarum del 1308-28. La prima notizia storica sta nel regolamento del vescovo Sanfelice del 1417: anche il castello di Piedimonte fu organizzato in una parrocchia collegiale. Si trattò di riunire nell’unica chiesa locale i preti per la cura d’anime a turno? O di riunirli da chiese diverse? Di queste però non si ha ricordo, e non resta che la prima possibilità.
Già prima del 1417, nella giurisdizione ecclesiastica del Castello stava il casale di monte Pedùccoli, che poi prese nome dalla chiesa di S. Gregorio, e comprendeva pure una sezione della conca del lago Matese, a sinistra scendendo dalla via di monte Raspato (dal 1810 la sezione attribuita a Castello sta invece a destra. Acqua di S. Maria e Capo di campo): «i confini andavano per quella parte che conduce alla terra del Tino, dalla via delli Jelaturi, al presente chiamati delle Tràvole, che scende alla cappella vecchia, e tira per diritto alla cappella nuova, e poi uscendo alla sorgiva chiamata l’acqua del Sambuco, esce al vallone e via di S. Massimo».
L’ultima redazione dello statuto capitolare risale all’800 e fu firmata dai canonici curati del tempo Francesco Saverio Costantini, Gabrielangelo Catorcio, Antonio Catorcio, Giovan Giuseppe Pezzullo, Stanislao Sciullo, Francesco Orlando.
La Collegiata risulta composta di sei canonici curati. Tale qualifica fu decisa dalla Congregazione del Concilio con le Decisiones del 14 Marzo 1856; e sanzionata da Ppa Pio IX il 30 Agosto. Manca un dignitario; un Ebdomadario celebra, e presiede il coro a turno.
Non esistono benefici singoli: i beni sono in massa comune (Furono incamerati per cinque sesti nel 1867).
Ogni anno, il 31 Dicembre, si svolgevano le elezioni interne. Venivano eletti due curati, un sacrista, un procuratore (per amministrare), un puntatore (per segnare gli assenti), due razionali (per la revisione dei conti). Officiavano tutti i giorni festivi, la settimana santa, le Rogazioni, tre processioni del Corpus Domini, i venerdì e numerosi altri giorni per gli anniversari, secondo una tabella mensile. L’abito corale risulta di rocchetto e mozzetta violacea.
I volumi delle conclusioni sono assai lacunosi. L’ultimo inizia il 31 Dicembre 1860, e dal 1880 non risulta più continuato.
La cura delle anime
Primo problema fu la cura d’anime. Il termine stesso di «collegiata» ci rimanda al concetto di parrocchia collegiale. Nel ‘4-‘500, ad evitare il frazionamento della cura d’anime fra chiese e cappelle di un paese, si preferì riunire parroci e cappellani in una sola chiesa, facendoli esercitare a turno generalmente due per anno, a volte per una settimana, dopo scelti dal loro collegio stesso, e perciò vicari curati.
Questo sistema sottraeva al vescovo la nomina dei parroci delle parrocchie più importanti. E i vescovi tentarono di eliminare questo diritto, restringendo la cura in un solo individuo, da essi nominato. Il primo tentativo di abolirla ci fu nel 1600.
La cura sarebbe stata affidata all’arciprete. Saputo ciò, i canonici fecero appello al Papa e alla Congregazione (atto notarile Achille de Parrillis del 14 Marzo 1600): «se gravatos translatione curae existentis penes collegium ad archipresbyterum unum…». Il 21 Febbraio 1601 la Congregazione dei Vescovi diede ragione ai canonici. Se n’è parlato a proposito del vescovo Gavazzi.
Nel 1648 la questione fu ripresa dal vescovo De Medici. La Congregazione del Concilio prima approvò, poi, dietro ricorso dei canonici, ordinò che non si mutasse niente, nihil innovetur. Era il 5 Dicembre.
Anche il vescovo Porfirio introdusse la cura perpetua in S. Maria Maggiore. Nuovo ricorso dei canonici, e il 12 Gennaio 1726 altra vittoria: due curati annui.
Due decreti dalla Real Camera della Sommaria, del 27 Giugno e del 7 Settembre 1794, esoneravano dalla tassa le collegiate di Piedimonte, in quanto formate da dodici parroci ognuna. Anche la Real Camera di S. Chiara, il 1 Febbraio 1796 dichiarava che i canonici delle collegiate piedimontesi erano tutti curati in titolo e con cura effettiva.
Come se tutto questo non fosse stato sufficiente, il vescovo Gentile, il 16 Marzo 1811 spinto dal governo, rimise il curato unico in S. Maria. Di fronte al fatto che uno diveniva attore e undici spettatori a vita, mutato governo, nel 1817 una petizione dei canonici e del comune di Piedimonte chiese il ripristino dei due curati annuali. L’insistenza fu tale che il 26 Giugno, il vescovo accondiscese: omnia reducantur in pristinum. Ne venne un rapporto al ministro degli affari ecclesiastici sulle collegiate piedimontesi, e in conseguenza, il Real Rescritto del 19 Maggio 1819, col quale veniva ordinato lo stato giuridico delle collegiate di Piedimonte. Fu assodato che in origine erano vere chiese parrocchiali, che i preti beneficiati avevano diritto al titolo di canonici, che la cura d’anime era di tutto il Capitolo.
Ancora un tentativo del vescovo Di Giacomo: nominare i canonici con suo biglietto, senza concorso. Immediato ricorso, e il 10 Marzo 1856, una dichiarazione della congregazione del Concilio, il 15 Luglio approvata da Papa Pio IX, fu immediatamente munita di Regio Exequatur. Altro tentativo c’era stato il 6 Novembre 1851. Di Giacomo dichiarò di voler proporre nuovi candidati all’Annunziata: i canonici avrebbero scelto. Ricorso, e il 29 Dicembre 1853 rispose la congregazione del Concilio. Intervenne energicamente anche il nunzio a Napoli, e il 4 Febbraio 1854, nella cappella del seminario fu fatto l’accordo.
I tentativi dei vescovi riuscirono a causa della diminuzione del clero, ma soprattutto per il fatto che il governo aveva riconosciuto un solo parroco, e non riconosceva parrocchie collegiali. Ormai, il 9 Settembre 1905, un decreto vescovile per S. Maria Maggiore poteva dichiarare: «actualis cura animarum apud unum Vicarium tantum esse debet». Il 26 Febbraio 1919 tanto confermava anche la congregazione del Concilio. Gli altri canonici, arciprete compreso, non dovevano immischiarvisi: nullo pacto se immisceri valeat. Anche l’arciprete godeva soltanto il beneficio: sola dignitate polleri in dicta Collegiata, absque ulla actuali cura animarum.
Le insegne canonicali
I canonici-parroci di Piedimonte, fin dal 1417 usavano il rocchetto e la mozzetta viola con cappuccio. Con lo sviluppo di Piedimonte e dei suoi enti ecclesiastici, si cominciò a pensare a insegne di maggior decoro.
Primo desiderio fu la cappa magna, cioè intera sia nel drappo amaranto estivo, sia nella pelliccia bianca invernale. La supplica al Re Ferdinando IV, di cui non si è trovato l’originale, fu trasmessa dal sovrano alla Consulta dei vescovi, il 16 Marzo 1803, e da questa al Cappellano maggiore, e questi il 25 Aprile s’informò presso il vescovo Gentile. Ma gli interessati chiacchierarono, e subito ci fu il ricorso del Capitolo e dell’università di Alife. Il 31 Maggio il vescovo rispose asserendo che le collegiate di Piedimonte erano corpi più recenti del capitolo di Alife, sfornite di canonica erezione al titolo (aveva dimenticato le bolle di Sisto IV e di Callisto III?), e di assenso regio; che per l’accordo del 2 Gennaio 1741, la cattedrale assiste il vescovo anche nelle chiese di Piedimonte, ma che comunque si poteva dare qualche insegna superiore ai piedimontesi (i quali sono in maggioranza nel capitolo di Alife).
Il 17 Agosto 1803 giunse al vescovo la risposta negativa del Re, tramite il ministro Migliorini. «Sua Maestà mi ha imposto di scriverLe che non ha luogo la domanda, e vuole che non si faccia su tale punto alcuna novità».
Nello stesso anno fallì pure il tentativo per la mezza cappa (quella che si ripiega sulla spalla sinistra), nonostante l’appoggio dell’arcivescovo Gervasio di Capua, allora cappellano maggiore.
Mutato il governo, nel 1862, su richiesta del consiglio comunale di Piedimonte, il vescovo Di Giacomo si rivolse a Re Vittorio Emanuele II, tramite il Ministro di Giustizia e Culto. Il decreto reale venne nello stesso anno, e il 4 Gennaio 1863 in S. Maria Maggiore e nell’Annunziata furono indossate le cappe con la pelliccia di ermellino (si rifiutò di farlo il canonico Salzillo dell’Annunziata). Ma ecco l’immancabile ricorso della cattedrale.
La Congregazione Concistoriale proibì le insegne date dal sovrano italiano, in quanto chi aveva diritto di farlo era il sovrano delle Due Sicilie. Ma l’indumento era troppo ambito per potervi rinunziare. Continuarono a indossarle, e continuarono pure i ricorsi del capitolo di Alife (i cinque canonici cittadini alifani, ma i sette piedimontesi non si associarono). Si arrivò alla proibizione perentoria i 4 Agosto 1883: la Congregazione proibì negative in omnibus et amplius.
Si giunse a una parziale soluzione. Il 20 Marzo 1891, il vescovo Scotti ottenne dalla Congregazione la mezza cappa, però con drappo viola e pelliccia cinerea, come quella dei mansionari della cattedrale di Benevento. Il breve di Papa Leone XIII autorizzava: assumere valeant hyeme perdurante, cappam brevem cum pellibus cinerei coloris …et cum panno serico violacei coloris tempore aestivo. Queste insegne sono durate fino all’estinzione delle collegiate verso il 1960.
Rapporti fra Cattedrale e Collegiate
Può meravigliare un clamoroso incidente, una lunga e dispendiosa causa fra ecclesiastici, per motivi che ai «moderni» sembrano futili. Si deve tener presente il movente psicologico basato sulla coscienza dell’importanza raggiunta dai gruppi ecclesiastici di Piedimonte. Si aggiunga l’interpretazione di norme giuridiche non ben definite. Ma proprio dall’urto di competenze veniva una sintesi più chiara e più stabile. Tali furono i rapporti fra cattedrale e collegiate.
Sulla norma che il parroco associa il cadavere alla sepoltura, derivò il principio che i canonici di Piedimonte, tutti parroci, dovessero celebrare essi le esequie, anche quando interveniva la Cattedrale. Si opponeva l’altro principio, secondo cui la Cattedrale, organismo superiore, non tiene conto di quella norma.
Un primo incidente avvenne il 27 Ottobre 1734, a morte del primicerio F. Meola. Il vescovo Battiloro decretò che i funerali fossero fatti in S. Maria Maggiore dalla Cattedrale: licitum sit fieri associatio supradicti cadaveris per RR.dos Canonicos Capitulares. Immediato ricorso di S. Maria ad Sanctissimum, e cioè al Papa. Intanto non intervennero ai funerali e non sonarono le campane. Il vescovo mandò gente assoldata a sonarle.
A Roma, nella congr. dei Riti, presieduta dal cardinale Gotti, gli avvocati di S. Maria affacciarono i seguenti dubbi: È lecito alla cattedrale, anche se non invitata, intervenire ai funerali dei propri canonici, nel territorio di S. Maria Maggiore? E dietro quale croce? Quella della cattedrale o quella locale? Mancano i documenti, ma pare che la risposta fu affermativa per la cattedrale.
Ma non fu definitiva. C’era stata una dichiarazione del ministro Secchioni a favore dei canonici di Piedimonte. A morte del vescovo Gentile nuovo urto, nel 1822: chi deve essere il capo funzionante? Le esequie a Piedimonte e a Napoli furono pagate dai canonici di Piedimonte e dal sindaco, ben 150 Ducati. Avrebbe funzionato il curato di quell’anno di S. Maria (perché Mons. Gentile era morto in episcopio, alla Crocevia; morendo in seminario, avrebbe funzionato il collega dell’Annunziata). Si finì dall’intendente di Caserta, il quale comunicò il fatto al giudice regio in Piedimonte. Questi pensò bene di armare la gendarmeria! «come se avessero dovuto espugnare Buda, Magonza o Costantina», dice il cronista. Il giudice innanzi all’episcopio, diffidò il curato di S. Maria e autorizzò il curato della cattedrale a pigliare il primo posto. Ma i due rivali già avevano indossato il piviale. Il giudice ordinò alla gendarmeria di fare il proprio dovere, e i gendarmi ordinarono ai canonici di mettersi a rango. Questi (di S. Maria e dell’Annunziata) gettarono via le candele, e si ritirarono protestando.
Si arrivò a un accordo: il vescovo De Martino, ricordando tutto questo, e in previsione della morte di Re Ferdinando I, convocò gl’interessati e, con atto del notaio R. Gismondi, il 24 Gennaio 1825, fu stabilito, in otto articoli, partita vinta per la cattedrale. Il 5 Ottobre, Re Francesco I sanzionava l’accordo.
Le con cattedrali e la residenza del vescovo
Piedimonte dal 1806 era capoluogo di distretto. Fra le autorità stava il vescovo, ma la cattedrale stava ad Alife. Senza modificar niente, non era il caso di proclamare con cattedrali le due collegiate di Piedimonte, dove già il vescovo svolgeva da secoli tutte le sue funzioni?
Il desiderio delle collegiate trovò un’eco nel progetto del canonico C. G. Iacobelli, il quale mise su «Articoli per l’unione delle tre chiese di Alife, di Piedimonte e di Vallata, formandosi una cattedrale di s7 canonici e mansionari». Quando Papa Pio IX, nella bolla Compertum Nobis dichiarò Piedimonte città vescovile, Episcopali residentia dignum planeque idoneum esse censeatur, il progetto parve vicino alla realizzazione. Il vescovo, dissero a Piedimonte, s’intitolerà aliphanus seu pedemontanus. Non è lo stesso per il vicino vescovo thelesinus seu cerretanus? Risiederà obbligatoriamente a Piedimonte; il Capitolo della cattedrale sarà unico in tre sezioni; insieme si amministrerà il seminario; nelle processioni si stabilirà una precedenza personale, non di sezione, ad eccezione delle tre dignità.
Ma ecco il ricorso del Capitolo di Alife, e il 20 Dicembre 1853 uscirono le Declarationes della congregazione concistoriale, firmate dal cardinale Antici Mattei: Piedimonte resti provvisoriamente residenza vescovile provvisoriam residentiam episcopalem, la cui prosecuzione resti affidata al prudente giudizio del vescovo prudenti libitu suo moram et residentiam in civico Pedemontis oppido; il vescovo s’intitolerà alitano Aliphanum tantum modo nuncupandum; che, per i canonici, stare ad Alife o a Piedimonte non è la stessa cosa esse haud omnino equiparatas.
Le cause contro l’insignità di S. Maria Maggiore
Gli urti di preminenza fra le collegiate di Piedimonte, esplodono, si può dire, dal 1650, data della qualifica di chiesa insigne a S. Maria Maggiore. Si arrivò a cause interminabili, alla base delle quali c’era la gelosia: dai canonici-parroci di Vallata e di Castello si insisteva che S. Maria aveva ottenuto la distinzione superiore «per prepotenza de’ Padroni». Prepotenza sta nel senso di grande influenza, dei duchi di Laurenzana signori di Piedimonte che favorivano il collegio sacerdotale della chiesa attigua al castello. Pare che chi mosse la controversia fu in canonico Baffi di Castello, familiare del cardinale Cecchini Prodatario, al quale il cardinale aveva promesso il cardinalato una volta eletto papa.
Il 13 Marzo 1651, S. Croce e Annunziata chiesero che venisse sciolta l’unione fra S. Maria e S. Giovanni. Nessuno ricordava la data dell’unione, che aveva portato a dodici il numero dei sacerdoti di quella chiesa. Neanche essi si presentarono e furono dichiarati contumaci dal vescovo De Medici. Perdurando l’ostilità, S. Maria si rivolse a Papa Alessandro VII. L’assenza al processo aveva fatto venire una minacciosa bolla di Papa Innocenzo X il 31 Luglio 1651: con quali prove S. Maria affermava i suoi diritti? «…contumaces declaramus, ita et taliter… de juribus producendis nullam haberi rationem decernimus et declaramus».
Il momento brutto fu superato. Il 21 Gennaio 1660 un nuovo rescritto confermava la qualifica contrastata.
Mancava il documento dell’unione fra S. Maria e S. Giovanni, ma il decreto d’insignità era un fatto. Fu quanto sostenne il vescovo Dossena. Per cui, di fronte a una nuova supplica dell’Annunziata al nuovo Pro Datario, «sciocchissima» secondo Trutta, e piena di falsità, (era il processo spedito a Roma dal vescovo De Medici), e dovendo rispondere a una lettera scritta il 16 Giugno 1660 dal Prodatario per ordine del Papa, monsignor Dossena rispose il 10 Luglio.
L’avvocato di S. Maria Maggiore, G. B. de Luca alle sue perorazioni, e al lungo memoriale del vescovo, ne aggiunse un altro dello stesso, il 26 Ottobre, speditogli da Frascati, e il 21 Gennaio 1662 la congregazione dei Riti dichiarò che S. Maria Maggiore era insigne: «…Constare de insignitate S. Mariae Majoris Terrae Pedimontis Aliphanae dioecesis, eique deberi procedentiam super Collegiatas SS. Annunciatae de Vallata, et S. Crucis de Castro». Nonostante il perpetuum silentium imposto, un estremo tentativo di Vallata e Castello fu l’appello direttamente al Papa: l’insignità era usurpata; i decreti estorti alla congregazione dei Riti; si rimandi la causa alla Dataria, e intanto si impedisca a S. Maria di dichiararsi «insigne». Terza causa. Mangiavano gli avvocati. E il 4 Marzo 1662 il terzo decreto: respinto l’appello e silenzio per sempre! «E.mi Patres S. Rituum Congregationi Praepositi, ex quo ejusmodi controversia mature discussa, impositum sit perpetuum silentium die 21 Januarii p. p. rescribi mandaverunt». S. Maria chiese che si comunicasse il provvedimento al vescovo.
Morto monsignor Dossena, subentrò monsignor Caracciolo (n. 45 della serie). Questi s’era messo in lotta aperta contro Piedimonte. Lasciò ricominciare da capo agli avversari di S. Maria. Denunziate le cose a Roma, gli arriva questa lettera dal cardinale Ginetto: l’Annunziata e S. Croce non obbediscono ai decreti della congregazione, continuano a intitolarsi chiese matrici, al Congregazione ordina mandat Amplitudini tuae di far eseguire esattamente i decreti, ut executionem decretorum adamussim adimplere faciat, et inhobedientes compellat, etiam sub censuris, Caracciolo, il 21 Marzo 1665 rispose con una lettera meschina che, riportandola, degraderebbe questa pubblicazione: la frase più divertente è che i canonici di S. Maria erano dei provocatori, agivano alla Masaniello, more Masanellorum. Ma anche quelli di S. Maria avevano spedito il loro rapporto. Confrontate le due missive, apparì la verità, e per Caracciolo fu scritta una lettera severa, come si conveniva a un accecato dalla faziosità: Lei è esecutore, non interprete! Adeo admirati sunt, et acriter (i Cardinali della congregazione dei Riti) che la Congregazione ha emanato ordini, et quod viceversa Te saltem indirecte predicate Insigni Collegiatae opposueris, proibendo campanarum sonum, ac ejusdem Collegiatae S. Mariae Majoris canonicos rejciendo in consacratione Olei sancti. Adeo, inquam, aegre tulerunt E.mi Cardinales, ut omnes unanimiter censuerint committendum esse, prout commiserunt Ill.mo Nunzio neapolitano predictorum decretorum executionem. Figuraccia peggiore non poteva fare! La questione veniva tolta alla sua giurisdizione e affidata al nunzio. Ma lo meritava. Un rappresentante dei «contumaci» (di Vallata e Castello) doveva andare a Roma a chiedere perdono a nome di tutti. Atque haec omnia Tibi graviter significanda esse, ut in posterum, tantum merus executor, et non iterpres te geras in executionem et observantiam decretorum S. Congregationis, quod dum Te facturum spero. Era il 20 Giugno 1665. Firmava il cardinale Ginetto Prefetto e monsignor Casali Segretario.
Il nunzio delegò un commissario. Le ammonizioni furono appese alle porte dell’Annunziata e di S. Croce. Dopo due giorni quella dell’Annunziata si trovò lacerata. Era stato un canonico di quella chiesa, che rimase scomunicato. E siccome la scomunica era connessa all’arresto da parte della forza pubblica, andò fuggiasco per molto tempo.
Altre cause di preminenza
Come se tante cause non fossero avvenute, l’Annunziata, nel 1735 rinnovò i tentativi. Fece domandare dal card. Origo ai S. Riti: si devono eseguire i decreti d’insignità di S. Maria? Risposero di sì, affirmative; l’Annunziata è insigne? No, negative; a quale delle due si deve la precedenza? A S. Maria, e lì si deve convenire per le processioni; il canonico anziano dell’Annunziata ha diritto al titolo di decano? Solo come nome, quoad nudam denominationem tantum. Per responsi simili se ne andò parecchio denaro il 6 Agosto 1735.
S. Maria Maggiore (era morto il suo patrocinante Marcellino de Lucia, che tante cause aveva vinto, ed ora aveva per avvocato De Retz) fece chiedere dal Cardinale Gentili: quanto è stato deciso il 6 Agosto, deve essere osservato? Bisognava leggere i testi. Il vescovo Isabelli si scusò, e giudicò la causa il cardinale Cenci arcivescovo di Benevento. Il 23 Luglio 1738 tutti a Benevento in calesse, per Caiazzo e Capua! (la via per Telese non era adatta), e finalmente il 28 Novembre 1739, innnanzi a quattordici cardinali, fu sciolto il dubbio: tutto come prima! In decisis, in omnibus et non amplius. Et ita decrevit et servasi mandavit.
S. Maria volle il placet regio, e questo venne il 9 Febbraio 1741. L’Annunziata sconfitta, tramite il principe di Piedimonte, cercò di ottenere qualcosa dal libero volere dei colleghi di S. Maria, e si arrivò al «concordato» del 28 Maggio 1745 (atto per notaio Gian Giacomo Gallo di Castello): tutte le precedenze a S. Maria; si permette all’Annunziata di appellarsi «insigne»; tutte le processioni separate, eccetto quella di s. Marcellino che percorre anche la Vallata. Campane e mortaretti salutarono l’accordo raggiunto.
Era finita? Neanche per sogno. Nel 1773 l’Annunziata ruppe il concordato. Campane a martello e assembramento di popolo. Il commissario di campagna (di pubblica sicurezza) ordina funzioni separate. Nel ’75 l’Annunziata manca alla processione del Patrono, e nel ’78 suona le campane di Sabato santo, un’ora prima dell’altra. Peggio successe il 2 Giugno: la processione di s. Marcellino con il commissario e le squadre di polizia! L’anno dopo, il clero di Vallata – è sempre Trutta che riferisce, in «Quattro secoli» – paga i caicchi per ottenere che non si facesse la processione di s. Marcellino, ad evitare tumulti. Così, dopo centotrentenni, s. Marcellino non uscì. Lo stesso fecero l’anno dopo.
Informata dal commissario, la Real Camera comunicò al sovrano la situazione intollerabile di Piedimonte, il 21 Agosto 1780: «…nel sentimento che possa Vostra Maestà sovranamente risolvere che si esegua la convenzione e concordia del 1745, osservata dalla stessa collegiata della Vallata, e che se mai avvenga ogni qualunque inconveniente, e specialmente nella processione di s. Marcellino, ne saranno i canonici della Vallata responsabili a Vostra Maestà, e cadranno nella Regale Indignazione, con lo sfratto dal Regno».
Intanto, il 7 Luglio ’81, Re Ferdinando IV, in consiglio di ministri, riconosceva l’insignità di S. Maria in base ai decreti pontifici, rigettava un ennesimo ricorso dell’Annunziata, ordinando rispetto alle preminenze della prima.
All’avvicinarsi del 2 Giugno ’82, i soliti chiesero udienza al Re, a Caserta, e domandarono che per quell’anno la processione fosse sospesa. Ma ottennero l’effetto contrario. Il 29 Maggio, pure in consiglio dei ministri, «Ferdinando IV per la Dio grazia Re…» tenendo presente il decreto del 7 Luglio precedente, ordinò di rispettare le precedenze alla processione del Protettore e che di qualunque sommossa di plebe «ne saranno essi canonici di Vallata responsabili», e puniti con lo sfratto dal regno. Finalmente si imponeva quel che si sarebbe dovuto imporre da 150 anni!.
Il testo è riportato su una lapide già in S. Maria, ora nel corridoio della sacrestia. Le «sommosse», così spontanee, finirono d’incanto. Tutto in pace fino al 1860. Al ’61, nuovo tentativo dell’Annunziata. Dal 2 Giugno ’98 i canonici di Vallata sono mancati alla processione del Patrono.
Cause di confine
Il confine fra le parrocchie di Piedimonte e di Vallata stava sul ponte di Toranello (oggi detto Maretto, in quanto emissario del laghetto nella villa ducale). Il fiumicello fu effettivamente spostato all’altro lato del convento (oggi piazza) del Carmine. Qual era ora il confine? Ne venne un cretino tafferuglio, e una causa interminabile. Il 25 Aprile 1660, il clero di Vallata volle andare processionalmente a quella chiesa, e più oltre, a S. Marco. Ricorsi alla congregazione dei Vescovi e Regolari: spostato il fiume, non è spostato anche il confine? Intanto il vescovo Dossena proibisce ai Vallatani di passare il ponte. Quelli vanno lo stesso, ma vi trovano, dice Trutta «Orazio sol contro Toscana tutta». Tafferuglio, ritorno e altri ricorsi. Spassose le imprecazioni dei Vallatani contro i Piedimontesi: «Turchi! Luterani! Così si impediscono i divini uffici? Così si tratta la s. Croce?». Secondo essi era stata gettata a terra e spezzata, ma secondo gli avversari era solo caduta. Ma la testimonianza dei Domenicani decise in favore di S. Maria Maggiore: prime a tirar pietre era state donne di Vallata. Il vescovo di Telese, Pier Francesco Moja, trasmise a Roma la sua inchiesta, e il 18 Gennaio 1662, la Congregazione dei cardinali decretò che Vallata non doveva passare la metà del ponte: non licere… nisi usque ad medietatem pontis.
Abbiamo dato notizia di un’attività non certo decorosa di una parte del clero diocesano. Tacerla? «idealizzare» la storia?… ma invece di storia sarebbe venuto fuori un romanzo.
Insieme alle pagine delle savie istituzioni, della cultura, della carità e della santità, era necessario anche questo richiamo a una realtà meschina, per riportare il ricordo e la valutazione del passato a quel che fu realmente, e non a quello che noi, con gli interessi e la mentalità di oggi avremmo voluto che fosse.
Cap. IV – I paesi della Diocesi
Censimento. – I dati del censimento derivano dall’Ufficio centrale di statistica di Roma.
| Comune | Parrocchie | Superficie Ha | Popolazione residente | Popolazione presente |
|---|---|---|---|---|
| Ailano | 1 | 1.549 | 1.717 | 1.196 |
| Alife | 2 | 6.387 | 5.811 | 1.336 |
| Calvisi – Carattano | 2 | 2.100 c. | 1.204 | 1.297 |
| Castello del Matese | 1 | 2.148 | 997 | 861 |
| Letino | 1 | 3.167 | 10.098 | 9.941 |
| Piedimonte Matese | 3 | 4.134 | 1.805 | 1.064 |
| Prata Sannita | 2 | 2.112 | 3.444 | 1.450 c. |
| Pratella | 1 | 3.444 | 2.248 | 1.551 |
| Raviscanina | 1 | 5.635 | 5.790 | 2.308 |
| San Gregorio Matese | 1 | 2.283 | 1.250 c. | 1.265 |
| San Potito Sannitico | 1 | 3.391 | 1.155 | 1.259 |
| Sant’Angelo d’Alife | 3 | 2.442 | 861 | 1.595 |
| Valle Agricola | 1 | |||
| Totali | 20 | 43.022 | 32.362 |
La superficie della parrocchia di Pratella è di ettari 2.500 c., e non combacia con quella del comune ripristinato nel 1909. Il confine della parrocchia sta a Fontana S. Arcangelo. La popolazione sta si 1.450 abitanti. Il confine delle parrocchie di Calvisi-Carattano sta sulla destra del torrente Arpénto-Vallone dell’erba bianca. Il territorio è esteso ettari 2.100 c. La superficie diocesana di Gioia e di Pratella è approssimativa. In tutto Kmq 430.
La storia religiosa dei paesi della diocesi non può che partire dall’editto di Teodosio del 392, per cui chiusi i templi pagani, le popolazioni dei nostri piccoli paesi e campagne passarono cristiani per obbligo di legge.
Le prime domande sono: esistevano i nostri paesi? Che organizzazione ecclesiastica ebbero dal secolo V?
I paesi esistevano quasi tutti, anche se ridotti nel numero degli abitanti, anche se alquanto spostati dal luogo attuale, anche se logicamente non ancora «terre», con mura e castelli. Essi derivano dalla protostoria sannitica, anche se hanno nomi medioevali e cristiani. Insomma, tranne Alife – la stessa dal terremoto e dalla ricostruzione del 369 – non bisogna immaginarli come sono attualmente.
Tracce paleocristiane finora sono:
- la lapide del vescovo Severo (V secolo),
- la lapide dei tre fratelli, trovata in San Gregorio, oggi introvabile (VI secolo).
Per il primo Medio Evo le numerose fondazioni di monasteri e di chiese, non ci riportano però a un’organizzazione. La documentazione di questa si trova nelle Rationes decimarum del 1308. Logicamente un’arcipretura, un beneficio tassati in quell’anno, esistevano da secoli.
Abbiamo in quell’anno una tassazione collettiva. Specificata è quella del 1325. Hanno un arciprete e varie chierici Ailano, Carattano, Piedimonte (compresi i casali), Prata, Pratella, Sant’Angelo de Robba canina, Tino (Letino).
Capitolo VIII – Le organizzazioni popolari
Sviluppo storico e loro valore nella Chiesa.
Le organizzazioni popolari sono quelle che nella Presentazione definivo la terza componente della comunità ecclesiale. Anche nella diocesi in esame obbediscono a due indirizzi organizzativi, che corrispondono quasi esattamente a due momenti storici.
Del primo tipo sono le confraternite, originate nel ‘200 e anche prima, assurte a importanza economica dal ‘600 all’800, oggi decadute. La loro caratteristica cultuale-amministrativa è l’autonomia e la localizzazione. Non dipendono da altre, stanno solo in un posto per un culto locale (anche se lo si pratica in molte parti), e spesso hanno un abito da cerimonia, il “sacco”, tipico e sfarzoso.
Dall’800 prevalgono i sodalizi. Tengono un’organizzazione unica per tutta l’Italia o per tutta la Chiesa. Più che per un culto locale, esistono per un culto o scopo generale, e perciò hanno un centro unico, quasi sempre a Roma. Sono cellule di un vasto organismo.
Questo secondo tipo, già esistente da secoli nel Terzo ordine di vari ordini religiosi, si è affermato ai tempi nostri, con limitata autonomia locale, meno appariscenza esteriore, ma visuale operativa più ampia.
Organizzazioni popolari religiose sono anche le “cappelle” e i “monti”.
Le due categorie non hanno assunto mai ruolo carismatico e culturale. Qualche tentativo simile fu bollato come ereticale. Non è detto che in futuro non possano ripigliare un ruolo di democrazia teocratica, sia per la formazione personale che per la gestione di opere cultuali e sociali.
Le “cappelle laicali” furono prima affidate esclusivamente alla gerarchia ecclesiastica per controllo. Ma in seguito intervenne lo Stato.
Per l’art. 266 della legge organica amministrativa del 12 Dicembre 1816, si ebbe il controllo del corpo municipale, ribadito dall’art. 140 delle istruzioni del 20 Maggio 1820. Re Ferdinando I ribadì il controllo statale, e tutte le opere pie derivate e amministrate da corporazioni furono iscritte in un catalogo. Per la diocesi in esame abbiamo consultato il Catalogo dei luoghi pii laicali di Terra di lavoro… (Caserta 1853).
Col regno d’Italia, più forte il controllo laico divenne sui legati e opere pie, ma è cessato col concordato del 1929.
Passiamo a quanto si ricorda nei nostri paesi.
Ad Ailano:
Confraternita del Corpo di Cristo.
Confraternita dell’Addolorata.
Confraternita del Rosario.
Le tre confraternite di Ailano esistevano già nel ‘700. La più antica è quella del Corpo di Cristo.
Cappella di Ave Gratia Plena. – Non se ne sa l’origine, che pare rimonti al ‘600. Nel 1849 fu riconosciuta con r. decreto. Oltre al culto aveva provveduto alle esigenze di un piccolo ospedale locale. Il 13 Marzo 1870 passò alla Congrega di carità.
Cappella di s. Sebastiano. – Anch’essa pare rimonti al ‘600. Fu riconosciuta con regio decreto nel 1849, e il 13 Marzo 1870 ne fu devoluta l’amministrazione alla Congrega di carità.
Cappella di Gesù Cristo. – Come per le altre non se ne sa l’epoca di fondazione. Anch’essa fu riconosciuta nel 1849 con regio decreto, e il 13 Marzo 1870 passò alla Congrega di carità.
Cappella del Purgatorio. – Neanche di essa si sa l’origine. Fu riconosciuta, come le altre, nel 1849, e il 13 Marzo 1870 passò alla Congrega di carità.
Cappella del Rosario. – Valgono le stesse notizie delle altre.
Ospedale. – Da una cronaca del primo ‘700 si ricava che consisteva in una casetta a disposizione di pellegrini e di pezzenti di passaggio ai quali si dava solo il coperto. Riscoteva una piccola rendita di 15 Ducati, che il clero della chiesa madre incorporò alla cappella del Purgatorio.
Ad Alife.
Confraternita di s. Pietro al mercato. – Esisteva nel 1223, nella chiesa omonima.
Confraternita… (nella Cattedrale). – Appare dal testamento del conte Marco Burrelli del 19 Ottobre 1523: “…legat beneficio Cappellae Congregationis Allyphanae ducatos mille de carolenis…”.
Confraternita del SS. Sacramento. – Istituita il 19 Maggio 1543 da Papa Paolo III nella Cattedrale (pergamena originale nell’Archivio della Cattedrale).
Confraternita dell’Immacolata. – Fondata il 29 Maggio 1817, ebbe il regio Assenso e l’approvazione del vescovo Gentile. Fino al 1864 si riunì nel soccorpo della Cattedrale. L’abito da cerimonia era bianco con mozzetta celeste. Possiede due sepolcreti al cimitero. Le elezioni si tenevano la 2° Domenica di Novembre.
Confraternita di S. Sisto. – Fu fondata il 5 Aprile 1885. Risiedeva in s. Caterina, e possiede il sepolcreto al cimitero. L’abito era bianco con cappa rossa con risvolto giallo.
Pia Unione di N. Signora del S. Cuore. – Istituita il 4 Dicembre 1875, il 30 Dicembre fu aggregata all’arciconfraternita omonima in Roma. Scopo era di curare gli esercizi spirituali al popolo durante la novena dell’Immacolata, ed il suffragio per gli iscritti defunti.
Cappella del buon Gesù. – Sembra la più antica. Già dal 28 Ottobre 1706 dal vescovo De Lazàra fu annessa alla piccola massa di entrate del Capitolo.
Cappella del Sacramento. – S’ignora la fondazione. Verso metà ‘800 possedeva terre per 36 tomoli (Cardete, Prati, Quercelle) con una rendita di L. 70 annue.
Cappella di s. Sisto. – Da un attestato del sindaco Francesco Di Gregorio del 20 Marco 1785 risulta che possedeva un trappeto; inoltre una casa in via Vescovato fittata per L. 14 annue.
Cappella della Vergine del Rosario. – Possedeva un piccolo fondo della rendita di L. 23 annue.
Ospedale de le fratarìe. – Riservato perciò non a pellegrini, cioè forestieri (quello stava fuori porta Beneventana, diretto dai cavalieri Gerosolimitani), ma alle fratarìe. Un termine questo non chiaro, se cioè riservato a frati, religiosi, o esteso anche a confraternite. Aveva annessa la chiesa di s. Caterina. Nel ‘400 funzionava ancora. Da secoli la chiesa è di patronato comunale, segno che anche l’ospedale aveva qualche carattere pubblico, almeno in ultimo.
In Calvisi e Carattano:
Confraternita del Rosario. – Non si sa la data di fondazione. Ebbe il R. Assenso il 31 Agosto 1830. Le elezioni si tenevano la 3° Domenica di Dicembre. Si era assai arricchita, ma il 19 Ottobre 1869 tutte le sue proprietà passarono alla Congrega di Carità di Gioia.
Cappella del SS. Sacramento a Calvisi. – Ebbe il Regio Assenso nel 1849, ed il 19 Ottobre ’69 fu amministrata dalla Congrega di Carità di Gioia.
Esisteva già nel ‘600. Ad essa furono donate le reliquie di s. Liberato dal vescovo De Lazzara.
Cappella del Rosario. – Le stesse date della precedente.
Cappella di s. Maria della Libera a Carattano. – Tutto come la precedente.
A Castello Matese:
Confraternita di S. Maria d’ogni grazia. – Fondata nel 1650, ricevé le prime regole dal vescovo Porfirio, il 2 Settembre 1714. Il 1° Giugno 1780 ebbe il R. Assenso, e il 15 Agosto 1912 approvò l’ultima redazione degli statuti.
Il 17 Novembre 1702 ci fu l’aggregazione all’Arciconfraternita del Gonfalone di Roma; Fondatore e 1° Prefetto era stato don Giovanni Pascarelli + 1656.
Per le elezioni non era determinato il giorno. Possedeva terre, vani terranei, censi, capitali e mobilio.
Nella cappella tuttora si conservano le statue, e si compiono devozioni per il Cristo morto, la Madonna delle grazie, l’Arcangelo Michele, s. Lucia e s. Margherita da Cortona. Svolgeva pure un’attività scolastica pagando qualche maestro.
Confraternita del Sacramento. – S’ignora la data di fondazione e lo statuto. Nel 1849 non aveva capitali, e si reggeva sulle contribuzioni dei confratelli.
Confraternita del Rosario e S. Maria della Vittoria. – Nel 1712 inizia il Libro dei censi e nel 1873 aveva una rendita di L. 129,70. Le elezioni si tenevano la 1° Domenica di Ottobre.
Confraternita della Misericordia. – Fu istituita in S. Croce, il 21 Marzo 1921.
Monte dei Pegni. – Fondato in anno imprecisato, il 7 Maggio 1849 ebbe il Regio Assenso, e il 13 Giugno 1871 ci fu il regio decreto che lo riconosceva.
In poco tempo si era notevolmente sviluppato. Mentre nel 1849 aveva un capitale di Ducati 59,70 nel 1873 possedeva un capitale circolante di L. 5.934, 74 con una rendita di L. 499,32.
Frutto delle Confraternite locali, durò fino al 1934.
Cappella del Santissimo. – Non si conosce la fondazione. Nel 1849 aveva rendite per ducati 41,61 che dal 3 Gennaio 1870 furono amministrati dalla locale Congrega di carità. Curava la festa del Corpus Domini.
Cappella del Rosario. – Derivata dalla confraternita, nel 1849 aveva un capitale che fruttava Ducati 57,04 di rendita. Il 25 Novembre 1869 aveva ricavato una rendita di ben 5.136,77 lire. Era proprietaria di una spezierìa a via Olivella.
Non vi è mancato un piccolo ospedale, nominato “casa degli infermi”. Se ne ha ricordo dalla Memoria per la confutazione al voto, del 16.
A Letino:
Confraternita di S. Giovanni Battista. – Non si sa con precisione l’anno di fondazione. Ebbe il R. Assenso il 21 Febbraio 1857. Distribuiva indumenti ai poveri e dava un maritaggio a un fanciulla povera.
Le elezioni si tenevano la 3° Domenica di Settembre. Sul camice bianco i confratelli indossavano una mozzetta rossa.
Cappella dell’Ospedale. Di origine ignota, amministrava un piccolo ospedale. Il 21 Dicembre 1869 passò alla Congrega di carità che dalle entrate dell’Ospedale e delle altre opere pie amministrava una rendita annua di L. 4.630,87. Da quell’epoca non è esistito più un ricovero per infermi, e le elargizioni si fecero a domicilio.
Cappella del Rosario. – S’ignora la fondazione. Il 21 Dicembre 1869 pass. alla Congrega di carità. Possedeva tre paduli, cioè terreni irrigabili, e curava la festa del Rosario e il suffragio.
Cappella del SS. Sacramento. – Non si sa la fondazione. Aveva i suoi capitali che, al solito, passarono alla Congrega di carità.
Cappella di S. Maria al castello. – Anch’essa, alla stessa data delle precedenti passò alla Congrega di carità. Curava la festa della Madonna, il suffragio e opere di beneficenza.
Cappella Monte dei morti. – Anche per essa vale la data di passaggio alla Congrega di carità. La principale devozione era il suffragio per le anime dei trapassati.
A Piedimonte:
Confraternita della SS. Trinità. – Il titolo non è sicuro. Nel 1417 già esisteva nella cappella dello stesso nome (oggi s. Lucia ad aquas). I confratelli erano tenuti a pagare il clero per i riti della festa della Trinità. Si ricava dal regolamento del vescovo Sanfelice del 1417, ar. 35 e 36.
Confraternita di s. Sebastiano. – Non si sa niente sulla fondazione. Nel 1538 cedette la cappella dedicata al santo, presso il ponte al Toranello, da incorporare nella chiesa del Carmine.
Confraternita di S. Maria Occorrevole. – Nel breve di Papa Innocenzo VIII Piis fidelium votis, del 7 Febbraio 1487, appare già fondata dai fedeli nella chiesa sul monte Muto “…quandam utriusque sexus confraternitatem instituerunt”. E con l’approvazione del vescovo si dettero gli statuti: “…ac pro illius bono ac felici regimine, confratres ipsi de consensu et voluntate Episcopi, nonnulla statuta, ordinationes seu capitula fecerunt”. Il santuario stava sotto il patronato del signore e del comune di Piedimonte, e per l’amministrazione si venne a un accordo: invece di uno furono due i maestri o governatori, uno dei quali nominato dal signore di Piedimonte (Onorato Gaetani e successori), l’altro dall’università. Così durò fino al 1809. Potevano nominare i cappellani anche senza il consenso del vescovo: “…presbyteros saeculares idoneos… ad eorum nutum ponendos, amovendos, etiam absque Dioecesani loci licentia”. I confratelli potevano lucrare numerose indulgenze, e una volta in vita, come in punto di morte, potevano scegliersi un confessore per i peccati riservati alla S. Sede, ma dovevano digiunare tutti i sabati almeno per un anno.
Nel 1679 la confraternita si trasferì in S. Sebastiano, una chiesa di sua proprietà in Piedimonte. Non sapendosi in quale sabato era stata scoperta l’immagine della Madonna sulla montagna, tutti i sabati di Quaresima vi si esponeva solennemente il Sacramento, c’era un sermone e la recita delle litanie.
Nel 1611 i governatori dettero a s. Maria Occorrevole ai Serviti, che però dopo un anno se ne andarono. Nel 1674 la dettero agli Alcantarini, con l’atto per Not. C. Ciccarelli del 21 Luglio.
Quando l’università costruì la via (quella vecchia attuale 1698-700), la confraternita fece edificare sette cappelle (la prima e l’ultima sono rovinate), decorandole di pitture e spendendo Ducati 435.
Nel 1809 furono incamerati i beni, e la fratellanza si estinse. A metà secolo, ancora in S. Sebastiano se ne ammirava la preziosa croce di argento, ancora per tutto l’Ottocento vi si conservarono mozzette, gonfalone e stendardi, e vi erano devoti che, rivestiti dell’abito della cessata corporazione, il martedì in albis salivano devotamente sulla montagna.
La confraternita aveva edificato la chiesa di s. Rocco, e nel 1611 l’aveva ceduta alla confraternita di Morte e Orazione. Possedeva pure s. Sebastiano e s. Giacomo. Dal catasto del 1754 appare proprietaria di tomoli 216 di terreni aratori e boscosi, di 989 pecore, 56 bovini, Ducati 12.073 di capitali. Le terre, dalla montagna ad Alife, furono vendute dal Fisco.
Bibliografia: cenni su tutte le storie di Piedimonte e di S. Maria Occorrevole; Platea dei beni (1793), ff. 348-355; Vertenza fra i PP. Alcantarini… e Alessandro del Giudice (Piedimonte 1883).
Confraternita del Rosario. – Fu fondata nel 1559 nella chiesa di s. Tommaso d’Aquino (s. Domenico). Ebbe il R. Assenso il 25 Settembre 1777. L’abito risultava di camice bianco e mozzetta celeste con galloni e ricami. Oltre al gonfalone, a principio del ‘900 faceva uscire nella processione del Rosario quindici piccoli vessilli dipinti dal pittore piedimontese Pasquale De Jorio coi misteri del Rosario; per le solenni esequie i confratelli usavano sacco e cappuccio bianco.
Nel 1616, dai confratelli, su consiglio dei Domenicani fu fondato il locale Monte dei pegni, per resistere all’usura.
Nel 1873 aveva una rendita di L. 613,28 in titoli, capitali e contributi.
I confratelli erano quasi tutti artigiani, e per essi c’era la messa dei fratelli, un’ora prima dell’alba. Dopo passavano nelle loro officine.
Reale Arciconfraternita del Carmine. – Fondata, pare, non molto dopo il 1538, fu la prima a Piedimonte ad avere il R. Assenso, il 19 Agosto 1776, e perciò i suoi confratelli sfilavano nelle processioni al posto d’onore. Soppresso l’Ordine carmelitano da Murat, e ceduto il convento allo svizzero Egg, la confraternita passò alla chiesa dei Celestini, anch’essi soppressi, e da allora, nel 1813, ne ha fatto la sua sede. Con Real Rescritto del 21 Settembre 1859 fu elevata ad Arciconfraternita, a condizione che erogasse almeno 30 Ducati annui per opere di beneficenza. Tanto onore le era venuto perché due anni prima, dopo l’alluvione del 13 Settembre, e i danni subiti, e i preziosi doni del Re Ferdinando II, i confratelli avevano nominato il sovrano “priore perpetuo”. Il 16 Novembre ’57 il Re, rappresentato dal Sottintendente conte Francesco Viti, ne aveva preso possesso.
Il 15 Settembre 1866 un decreto luogotenenziale da Firenze, ne approvò lo statuto. Ne appare che la confraternita aveva un medico-chirurgo e un farmacista propri; aveva visitatori dei poveri, “giornanti” e “nottanti” per assistere gl’infermi; faceva visite ai carcerati e curava il seppellimento dei morti per carità. Nel 1863 edificò la propria cappella al cimitero.
L’abito imitava quello carmelitano: camice marrò scuro, e cappa giallolatte; tosone marrò con ricami e placca d’argento.
Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 63,36.
Bibliografia: Statuto organico e regolamento interno della Venerabile Arciconfraternita di S. Maria del Carmine (Piedimonte 1875); La verità (Napoli n. 29 del 17 Luglio 1858), descrive la cerimonia del possesso del Re.
Arciconfraternita del SS. Sacramento dei Nobili. – Fondata nel 1599 in s. Domenico, ove tenevano l’oratorio, ebbe per scopo la carità cristiana e l’assistenza ai carcerati. Nel 1680 fu aggregata all’arciconfraternita omonima alla Minerva in Roma. Il 20 Giugno 1776 ebbe il R. Assenso, ribadito sulla fondazione il 21 Luglio 1784. Il 2 Ottobre 1829 con bolla di Papa Pio VIII fu elevata ad arciconfraternita, con vari privilegi fra i quali di aggregare altre confraternite extra urbem: ubique locorum. Il decreto del Papa fu confermato dal Re il 28 Aprile 1832.
Il 12 Aprile 1841 ci fu il R. Rescritto che li autorizzava a indossare l’abito rosso (camice e sarrocchetto e tosone) uguale a quello dell’arciconfraternita dei Pellegrini di Napoli, e il 2 Giugno 1842, alla processione di s. Marcellino, l’élite di Piedimonte sfilò per la città. Ai funerali partecipavano in borghese, dietro la bara. La fratellanza nobile sovvenzionava i “pezzenti”, come a Napoli a cui si guardava in tutto. Questi, in camice bianco seguivano le esequie reggendo una bandierina nera, su cui stavano scritte in carta bianca le iniziali del nome e cognome del nobile defunto. Nel 1860 edificò la sua cappella al cimitero.
Le elezioni si tenevano il 1° Gennaio. Nel 1829 aveva una rendita di Ducati 29,20, e nel 1873 la rendita di L. 119,86.
Fu sciolta nel 1881.
Confraternita del SS. Nome di Dio. – Era la terza confraternita esistente in s. Domenico.
Il 25 Settembre 1777 ebbe il R. Assenso.
Si fuse in seguito con quella del Rosario, con la quale nel 1873, fu tassata per L. 613,28 di rendita.
Bibliografia: per le confraternite in s. Domenico v.: D’Andrea F.G., Il convento di S. Tommaso d’Aquino in Piedimonte Matese in un registro del secolo XVIII, su Annuario 1977 dell’A.S.M.V., 73 sgg.
Confraternita di Morte e Orazione. – Fondata nei primi anni del ‘600, era sorta per seppellire “qualsivoglia morti”.
L’11 Novembre 1621, con strumento per Not. Michele Perrotta di Piedimonte, stette all’arbitrato del vescovo Seta, in una lite fra gli eredi della fondatrice della chiesa di s. Rocco e gli economi di questa.
Il 31 Agosto 1786 ebbe il R. Assenso, e il 10 Dicembre dello stesso anno fu aggregata all’arciconfraternita omonima in Roma.
L’abito consiste in un camice bianco con mozzetta nera gallonata e ricamata in oro; nelle cerimonie mortuarie è completamente nero con cappuccio.
Le elezioni si tengono il 15 Agosto. Nel 1860 edificò la sua cappella al cimitero, che ha ampliato nel 1967.
Nel 1611 le fu concessa la chiesa di s. Rocco dalla confraternita di s. Maria Occorrevole con l’obbligo di portare processionalmente ogni anno una candela di una libbra nel santuario sulla montagna, nel Martedì di Pentecoste.
Dal catasto del 1754 appaiono gli obblighi: mandava cere a S. Maria Occorrevole e a S. Sebastiano, agli Alcantarini dava grano e Ducati 230.
Confraternita di S. Mari di Costantinopoli. – Fondata nel 1626, fu aggregata a quella esistente nella cappella dei ss. Lorenzo e Dàmaso di Roma. Curò l’ampliamento della chiesa ove aveva sede, nella frazione Scorpeto. Il 9 Aprile 1713 stabilì il capitolato con sei cappellani. Dava un maritaggio annuo di 15 Ducati.
Dal catasto del 1754 appare il suo patrimonio: era ben ricca; e forse teneva organizzati i confratelli pastori, dato che possedeva 1.480 pecore, 334 capre, 32 bovini; un credito di 5.526 Ducati col principe De Luna d’Aragona.
Confraternita di S. Maria della libera. – Fondata nel primo Settecento, ebbe il R. Assenso il 22 Settembre 1787. Le elezioni si tenevano l’8 Settembre. L’abito consisteva in camice bianco e mozzetta celeste. Dall’Annunziata si trasferì in S. Filippo.
Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 134,94 e nel 1873 di Lire 657,69.
Cappella del SS. Sacramento. – Fondata nell’Annunziata. Nel 1719 i beni servirono a dotare altri sei canonici istituiti in quella Collegiata.
Cappella di S. Rocco e SS. Sacramento. – Fondata nella chiesa di Sepicciano. Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 147,07.
Cappella di S. Maria di Costantinopoli. – Fondata dalla confraternita omonima nella chiesa dello Scorpeto, nel 1849 aveva una rendita di Ducati 386,95.
Cappella di S. Sebastiano. – Nella chiesa del Carmine stava una cappella laterale dedicata al santo, già titolare prima che si costruisse la nuova chiesa nel 1538. Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 296,17 di cui disponeva la commissione di beneficenza.
Cappella dell’Annunziata. – Era fondata nella chiesa omonima. Nel 1719 i suoi beni, come quelli dell’altra del Sacramento, servirono a dotare altre sei canonici in quella Collegiata.
Cappella di S. Marcellino. – Fondata in S. Maria Maggiore, nel ‘600. Faceva celebrare 23 messe e 4 anniversari.
Monte Pierleone. – Stabilito il 1° Novembre 1773 col testamento degli ultimi Pierleone, Maria, Aurora e don Francesco. La rendita andava per soccorsi ai poveri e per opere di culto.
Monte Mastrodomenico. – Deriva dal testamento del 17 Dicembre 1691 di Filippo Mastrodomenico che lasciò quanto possedeva alla cappella del Sacramento in S. Maria, per avere mille messe l’anno, per vari maritaggi e per la festa a s. Filippo Neri. Nel 1849 aveva la notevole rendita di Ducati 625,95. Otto maritaggi passarono al monte delle doti.
Monte delle doti. – Sempre dal Catalogo dei luoghi pii laicali apprendiamo che esisteva in Piedimonte, e a metà ‘800 dava dieci piccole doti o maritaggi, otto per fanciulle piedimontesi e due per altre dei sobborghi. Di essi otto venivano ricavati dal Monte Mastrodomenico e due dalla cappella Ave Gratia Plena.
Monte dei pegni del Rosario. – Fu fondato nel 1616 dai confratelli del Rosario che, per consiglio dei Domenicani, vi destinarono tutti i superi di cassa. Fu il quinto di Terra di lavoro; era necessrio per sottrarre i Cristiani all’usura. Aveva sede in un locale alla Crocevia (oggi piazza E. d’Agnese).
Durante il ‘700 subì tre furti, e in compenso ebbe un testamento da don Giovan Battista Battiloro. Nel 1799 fu derubato interamente dai Francesi invasori. Fu riaperto nel 1802, col capitale di Ducati 102,01 ma nel 1811, Murat non riconobbe il debito pubblico dello Stato verso i Luoghi pii, che fallirono tutti, e anche il nostro Monte ne subì le conseguenze. Nel 1820 i nuovi amministratori dettero un regolamento: stavolta la confraternita inviò un delegato, ma decideva in maggioranza la commissione di pubblica beneficenza; e mentre fino allora non si pagava niente per il prestito, da quell’anno si pagò il 6 per cento.
Nel 1867 il Monte passò a una nuova sede al Mercato, e il capitale risultava così ripartito: L. 32.162,05 capitale libero, L. 2.756,75 depositato per maritaggi. Le uscite erano L. 518,50 per stipendi, e L. 18,95 per contributo fondiaria. Il 7 Gennaio ’71 la situazione era: pegni esistenti n. 1.674 per L. 40.734,55. Certo, bisogna tener presente che l’aumento dei capitali del Monte era in proporzione diretta della crisi che attanagliava Piedimonte con la chiusura del grande cotonificio, e comunque il Monte, per quel che poteva, resisteva a quella crisi. Ritornato il benessere col lavoro, il capitale non aumentò molto: al 31 Dicembre 1924 era di L. 109.352,90. Con la svalutazione e la quantità di moneta cartacea circolante, è rimasto pressoché inattivo.
Monte dei sussidi. – Non si conosce l’epoca della fondazione. Dava sussidi in denaro, e distribuiva vesti e medicine. Nel 1873 fu annesso alla Congrega di carità.
Cappella A.G.P. – Esiste sicuramente dal ‘600, e forse prima. Amministrava l’ospedale di Vallata.
Cappella di S. Maria Occorrevole. – Amministrava il santuario. Fondata dalla confraternita, divenne autonoma dopo il 1809, e nel 1849 godeva la notevole rendita di Ducati 333,78, la maggior parte della quale devolveva agli Alcantarini.
Cappella delle Sorelle del Rosario. – Fondata in S. Domenico, concedeva due maritaggi di 10 Ducati l’uno; nel 1849 aveva una rendita di Ducati 261,23.
Monte del SS. Sacramento, detto pure Monte dei Morti. – Stava in S. Maria Maggiore, fondato nel 1625 dal vescovo Zambeccari. Si pagava grani due e mezzo al mese, e celebrava tre messe al giorno. A morte di ogni iscritto, 40 messe lette, una solenne e un anniversario da parte dei canonici. La governava un Rettore, che però era extra partem, non scelto fra i dodici di S. Maria. Gli avanzi costituivano rendite. Nel 1706 il vescovo Porfirio volle eleggere rettore e segretario, fin’allora scelti dai canonici. Questi ricorsero all’Uditore della Camera apostolica, e il 4 Settembre venne un monitorio contro i promotori. Il vescovo si riservò la verifica dei conti.
La cappella s’impegnò a fornire l’olio per la lampada del Sacramento nella nuova parrocchia di Sepicciano. Aveva un quantità di crediti, e alcuni li alienò per costruire la cappella del Sacramento pure nella erigenda chiesa parrocchiale di Sepicciano.
Pia Associazione dei ss. Cuori. – Fu fondata in S. Maria Maggiore, il 28 Giugno 1878 dall’arciprete mns. L. Merolla, e il 28 Settembre 1880 fu canonicamente eretta dal vescovo Volpe, e ci furono feste straordinarie. Direttore era l’arciprete pro tempore, coadiuvato da un Consiglio direttivo che ne curava l’amministrazione. Era formato da gruppi di 33 persone ognuno, e per ognuno di essi un Zelatore o Zelatrice curava la distribuzione degli obblighi bimestrali spirituali su apposite pagelle. Ogni 1° Venerdì del mese si celebrava la messa per i benefattori, e ogni 1° Domenica c’era solenne adorazione eucaristica. Veniva celebrato tutto il mese di Giugno, e si concludeva con la processione del S. Cuore, nella 1° Domenica di Luglio.
Era stata preceduta da un’altra organizzazione simile, fondata, pure in S. Maria nel 1832, e aggregata in Roma alla Pia Unione in S. Maria ad pineam detta poi della Pace, con le stesse indulgenze.
Il 21 Settembre 1901 fu aggregata all’Apostolato della preghiera.
Ospedale dei pellegrini. – Se ne ha notizia già nel ‘400, ma doveva esistere da molto prima. Sorgeva sotto il muraglione che dal castello (oggi palazzo ducale) chiudeva la piccola Piedimonte fino alla porta S. Arcangelo, accosto alla cappella omonima al Ponte. Nel 1754 esisteva ancora. Ad esso accenna un decreto di S. Visita del 1535, e il decreto imperiale del 1730 col quale Piedimonte è dichiarata città. Aveva sei posti. Era quello dei Domenicani o altro più antico?
Ospedale Ave Gratia Plena. – Un secondo ospedale a Piedimonte sorse nel primo ‘600. Nicola Vincenzo Costantini (strumento 16 Marzo 1616) lasciò casa e rendita, e Marcantonio Messere (strumento 8 Maggio 1621) lasciò erede dei suoi beni la confraternita dell’Annunciazione con l’obbligo di pensare anche all’ospedale. I posti, fino a tutto il ‘700 erano sei.
Pagava 16 carlini al medico e 15 al cerusico. I Carmelitani vi svolgevano gratuitamente l’assistenza spirituale.
Cessato durante il ‘700 l’ospedale di Piedimonte, la rendita divenne notevole: nel 1849 raggiungeva Ducati 944,16 (v. Ospedale). In origine dava anche due maritaggi, passati poi al Monte delle doti.
Nel 1879, il vescovo Barbato Pasca lasciò all’ospedale le sue rendite, L. 3.405 annue, che determinarono l’ampliamento del nosocomio.
Conservatorio delle orfane. – La carità cristiana determinò don Nicolò Gaetani d’Aragona e la colta e caritatevole consorte donna Aurora Sanseverino, a fondare nel 1711 un conservatorio per le orfane. Le fabbriche, al Largo S. Sebastiano, spingentisi con ardito arco oltre il Torano, terminarono nel 1719. Dai fondatori fu dotato con 500 pecore, e affidato per l’amministrazione alla confraternita di S. Maria Occorrevole, e per la direzione a una religiosa, della quale non si sa nome e congregazione. Ma durò un trentennio. Il 3 Luglio 1746, un R. Dispaccio ordinava l’allontanamento della superiora per i suoi modi tirannici, la restituzione delle fanciulle ai parenti, e la retrocessione dell’edificio ai donatori.
Per l’orfanotrofio femminile delle Figlie della carità si veda il capitolo sui Religiosi.
Mendicicomio. – Il 10 Dicembre 1937 i fratelli Laura e Simone Fantini donavano il loro patrimonio alla mensa vescovile, per opere di culto.
Con questo patrimonio, il sacerdote Lucio Ferritto, fondò un mendicicomio intitolato “Casa della Divina Provvidenza”. L’istituto fu affidato alle Suore Apostoline del S. Cuore di Gesù, ed ebbe per superiore-direttrici suor Alessia e suor Pacifica. Verso il 1960 vi stavano ricoverati sui trenta vecchi in due reparti. Per i ricoverati c’era la sovvenzione governativa di L. 7.000 mensili. Molto altro veniva dato dal Ministero degli Interni Prefettura, Comuni (cui apparteneva il ricoverato), e popolazione. Purtroppo la pia istituzione non ha durato, e dal 1963 è chiusa.
Pia Opera del pane di S. Antonio. – Fu fondata il 10 Gennaio 1921 a Piedimonte, nella chiesa di s. Francesco. Il Bullarium della curia chiarisce lo scopo: “…ad pauperes sublevandos, panem eis tribuendum, ac devotionem erga thaumaturgum Antonium Patavinum fovendam…”. Lo statuto in 8 articoli prevedeva una quota annua di L. una.
Conferenza di s. Vincenzo de Paoli. – Fu fondata dal vescovo Noviello nel 1931. Si riuniva nella biblioteca L. Paterno, e gli iscritti contribuivano ad ogni riunione, e spesso si recavano in casa dei poveri per soccorrere e perfino per fare pulizia e dare indumenti.
A Prata:
Cappella del Corpo di Cristo. – Esisteva già nel ‘600. Fondatore e donante fu Giacomo Cardillo, con testamento del 22 Dicembre 1699. Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 130,92. Il 31 Ottobre 1867 passò alla congrega di carità.
Due lapidi in S. Pancrazio ricordano i donante:
D.O.M. / ARAM HANC ET CAPPELLAM QUAM / INSPICITIS DEO EUCHARISTICO DICA / TAM PROPRIA SUCCESSIONE DOTAVIT / QUIDAM JACOBUS INFIMUS CIVIS PRAT / ENSIS VIGORE TESTAMENTI IN SCRIPTIS / ROGATI MANU QM. NOTARY HOANNIS VENDE / TTUOLO TERRAE FOSSACECAE XI KALEN / DAS JANUARY MDCIC APERTI ET PUBLI / CATI VIII KALENDAS DECEMBRIS MDCC / XXIX PER NOTARIUM MARCANGELUM / VENDETTUOLO EIUSDEM TERRAE.
La congrega di carità aggiunse:
OBSEQUIUM TESTAMENTI / JACOBI CARDILLO CHARITATIS / CONGREGATIO PP. MDCCCLXXIII.
Cappella di s. Nicola da Tolentino. – Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 143,62. Alla stessa data della precedente passò alla congrega di carità.
Cappella del Rosario. – Nel 1848 aveva la rendita di Ducati 66,34. Anch’essa passò alla congrega di carità.
Cappella di S. Maria della misericordia. – Con la rendita di Ducati 34,27 nel 1846 provvedeva alla festa e a qualche beneficenza. Alla stessa data passò alla congrega di carità.
Cappella di S. Maria degli Angeli. – Non si conosce la sua rendita. Insieme alle altre cappelle e luoghi pii di Prata rese alla congrega di carità nel 1873 la rendita di L. 3.897,93.
Cappella di s. Sebastiano dell’Ospedale. – S’ignora la fondazione. Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 75,73. Come le altre, dal ’73 fu amministrata dalla congrega locale. In passato curava un ospedale locale.
A Pratella:
Confraternita del Rosario. – S’ignora l’epoca di fondazione. Ebbe il R. Assenso il 36 Aprile 1860.
Cappella del Corpo di Cristo (o del Venerabile). – Pare fosse un’antica confraternita. Nel 1849 non aveva patrimonio. Il 15 Marzo 1871 fu amministrata dalla Congrega di carità di Ciorlano. Con la autonomia del 1909, essa e le seguenti passarono alla congrega di carità di Pratella. In passato aveva amministrato un piccolo ospedale.
Cappella dell’Ospedale. – Non si conosce data di fondazione e rendita. Il 13 Marzo 1871 passò alla Congrega di carità di Ciorlano.
Cappella del Rosario. – Nel 1849 non aveva patrimonio, e alla stessa data delle altre fu amministrata dalla Congrega di carità di Ciorlano.
A Raviscanina:
Confraternita del SS. Sacramento. – Fondata il 10 Ottobre 1931 dal vescovo Noviello, nella chiesa parrocchiale di S. Croce: ad opera pietatis et charitatis fovenda, come dice la bolla di istituzione. Lo statuto è in 34 articoli. L’abito consiste di un camice bianco e mozzetta rossa nelle processioni, nera nelle esequie.
Cappella del SS. Sacramento. – Fondata, pare, ne ‘600. Il 18 Ottobre 1869 passò, come tutti i Luoghi pii laicali di Raviscanina, alla Congrega di carità, che si trovò ad amministrare la notevole rendita di L. 7.670,43.
Altre cappelle laicali erano:
Cappella del Rosario.
Cappella di Ave Gratia Plena.
Cappella della Pietà.
Cappella del Calvario. – La più ricca del paese. Nel 1849 amministrava una rendita di Ducati 711,91.
Cappella di S. Pietro.
Cappella di S. Antonio.
A San Gregorio Matese:
Confraternita del S. Nome di Maria. – Ottenne il R. Assenso il 30 Ottobre 1764. Le elezioni si tenevano il 12 Settembre. A metà Ottocento non aveva patrimonio, ma si reggeva sui contributi dei confratelli.
Cappella del SS Sacramento. – Nella “Collettiva generale delle oncie” del 1754, risulta molto dotata. Possedeva 1022 pecore (a 1 carlino l’una), 289 capre (a 2 carlini), 38 vacche (a 20 carlini), e anche cavalli “vetturali” (a 40 carlini).
Il 19 Ottobre 1869 passò alla Congrega di carità. La rendita di tutte le cappelle equivaleva a L. 1.402.
Le altre cappelle erano:
Cappella del Purgatorio.
Cappella di S. Maria delle grazie. – Nel 1849 aveva la rendita di Ducati 22,26.
Cappella di S. Antonio. – Piccola rendita nel 1849 di Ducati 13,38.
Cappella di S. Croce. – Nel 1849, Ducati 11,38 di rendita.
Cappella di S. Michele. – La più modesta di tutte: Ducati 1,05.
A San Potito:
Confraternita di S. Antonio. – Sorta nell’ultimo Seicento, ebbe il R. Assenso il 19 Maggio 1827. Risiedeva nella chiesa dell’Ascensione.
Le elezioni si tenevano la 1° Domenica di Novembre. Si reggeva sul contributo dei confratelli. L’abito imitava quello francescano.
Confraternita della S. Croce. – Detta pure dell’Addolorata e del Monte dei morti, aveva sede in S. Caterina, ed ebbe il R. Assenso il 4 Maggio 1829. Le elezioni si tenevano la 3° Domenica di Dicembre. Si manteneva col contributo dei confratelli.
Questi intervenivano alle processioni vestendo un camice bianco su cui mettevano una mozzetta nera ricamata d’argento.
Cappella dell’Ascensione. – L’origine va riportata dopo il 1651. Dotanti furono Vincenzo di Chello, Caterina della Nave, Caterina Riccio e altri. Nel 1849 era abbastanza ricca: Ducati 424,75 di rendita.
Cappella del Santissimo. – Dotanti furono Giacomo Sorillo, Francesco Colapetella e Prudenza Riccitelli.
Cappella di S. Antonio. – Insieme alle precedenti, il 10 Ottobre 1869 passò alla Congrega di carità.
A Sant’Angelo:
Confraternita del Rosario. – Ebbe il R. Assenso il 5 Aprile 1856. Le elezioni si tenevano la 3° Domenica di Dicembre. Si reggeva sulle prestazioni dei confratelli.
Cappella del SS. Sacramento. – Il 15 Gennaio 1870 passò alla Congrega di carità, e insieme alla altre opere pie dava la rendita di L. 742,73.
Altre cappelle laicali erano:
Cappella del SS. Nome di Dio.
Cappella del Rosario.
Cappella della Pietà.
Cappella di S. Giuseppe.
A Valle:
Confraternita dell’Addolorata. – Fu fondata nell’Annunziata il 5 Settembre 1778 da dodici sacerdoti: Domenico Rega arciprete, Stefano Landi, Nicola di Muccio, Fabio Landi, Pasquale Rega, Giovanni Riccio, Nicola Piazza fisico, Michele Pezzullo, Bartolomeo Rega fisico, il magnifico Giuseppe Rega, Leonardo di Muccio, Giuseppe Riccio e Domenico Varatta. Dietro istanza del vescovo Sanseverino ebbe il R. Assenso il 15 Novembre 1778, col quale si approvava lo statuto in 23 articoli. Le elezioni si tenevano la 1° Domenica di Ottobre. I confratelli vestivano un camice bianco e una mozzetta nera gallonata.
Si pagava la quota in questo modo: carlini 6 all’entrata, chi aveva da 18 a 25 anni, carlini 10 da 26 anni a 30, carlini 15 da 31 a 40, da 41 in poi decideva la fratellanza. In più c’erano le prestazioni: 2 coppe ocali (litri 5,60) di grano da ogni confratello; il grano ricevuto in Agosto (epoca della esazione) si conservava fino a Marzo; una parte si vendeva per opere di culto, una parte si restituiva ai confratelli con l’obbligo di restituirla alla confraternita aumentata di un decimo.
Cappella di S. Sebastiano. – Risale certamente all’ultimo Seicento. Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 72,30. Il 25 Giugno 1869 passò alla locale Congrega di carità Nel 1873 la rendita di tutte le cappelle laicali della Valle matesina fruttava L. 1.651,26. Le altre erano:
Cappella del Rosario.
Cappella della S. Croce. – Nel 1849 aveva una rendita di Ducati 29,74.
Cappella del SS. Sacramento. – Alla stessa epoca riscoteva Ducati 50,34.
A Piedimonte, alcune confraternite vantavano un’antichità maggiore rispetto ad altre, e per iniziativa del commissario di campagna nel 1781 dovettero procedere secondo la data del regio assenso.
Nel 1869, anche la curia, ad evitare nebulosi riferimenti al passato, impose l’ordine di precedenza per tutta la diocesi fondandosi sul regio assenso, cioè sul decreto statale di riconoscimento. La precedenza fu attuata come segue: Arciconfraternita del SS. Sacramento dei Nobili (Piedimonte), R. Arciconfraternita del Carmine (Piedimonte), Confraternita del Nome di Maria (San Gregorio), Rosario (Piedimonte), Addolorata (Valle), S. Maria delle grazie (Castello), Morte e Orazione (Piedimonte), S. Maria della libera (Piedimonte), Immacolata (Alife), S. Antonio (San Potito), S. Croce (San Potito), Rosario (Calvisi), S. Giovanni Battista (Letino), Rosario (S. Angelo).
Fra i sodalizi moderni estesi a tutta la diocesi ricordiamo:
Pia Opera ripartitrice delle ingiurie. – Fu fondata dal vescovo Scotti (nel bullarium mancano date e firme), forse doveva essere diffusa in tutte le parrocchie, dato che la bolla di erezione dice: “…in ecclesia huius Nostrae Dioecesis titulo”, affinché la riparazione potesse avvenire più facilmente.
Opera diocesana dei Tabernacoli. – Nata per fornire di indumenti le chiese, fu fondata in diocesi dal vescovo Caracciolo.
Opera della Regalità di Gesù Cristo. – Esisteva in diocesi. Non si hanno notizie precise sulla fondazone.
Congregazione della Dottrina cristiana. – Il vescovo Del Sordo la istituì il 24 Giugno 1921 nella cattedrale, in S. Maria Maggiore e Annunziata di Piedimonte, Ailano, Prata, San Gregorio, S. Maria della Valle a Sant’Angelo, e a Valle Agricola; pure in quell’anno il 16 Dicembre a Sepicciano, il 16 Maggio ’22 a San Potito, l’11 Novembre ’22 a S. Nicola e il 10 Ottobre ’23 a S. Bartolomeo entrambe di Sant’Angelo, il 4 Aprile ’28 a Castello. Per tutte: …perpetuo erigimus et insituimus.
Associazione dei sacerdoti adoratori. Dall’archivio del Centro Eucaristico a Ponteranica (Bergamo), risulta che i primo iscritto di questa diocesi fu don Giangiuseppe Pacella, il 1° Gennaio 1911, al n. 18.128. Il 15 Giugno ne fece parte il vescovo Del Sordo e un bel gruppo di sacerdoti.
Il sodalizio esiste tuttora, e svolge i suoi turni di adorazione.
3° Ordine francescano. A Piedimonte è stato fondato il 25 Agosto 1918 dal padre Geremia Olivieri o.f.m. ed è interparrocchiale.
Ha raggiunto un massimo di 140 iscritti, che al presente sono 80. Hanno una sede nel palazzo Ragucci, contribuiscono per Terra Santa, per le missioni francescane, per i lebbrosi che a Massaua in Eritrea sono raccolti e curati proprio dal Terz’Ordine, e compiono visite agli infermi.
Anche Castello e San Gregorio hanno avuto la fratèrnita.
Unione dei Cooperatori Salesiani. – A Piedimonte si sono avuti i primi cooperatori nel 1962, e ad essi il rettor maggiore don Ziggiotti, inviò il diploma, considerandoli partecipi di tutti i favori spirituali concessi.
Al presente sono 85, e collaborano attivamente coi padri Salesiani.
Apostolato della preghiera. – La data di fondazione delle associazioni parrocchiali è la seguente:
Ailano 14 II 1913
Alife – Cattedrale 15 XI 1907
Alife – S. Michele 29 IV 1940
Calvisi 27 XI 1923
Castello 21 XII 1928
Letino 27 XI 1923
Piedimonte S.M.M. 27 IX 1901
Piedimonte Annunziata 1893
Piedimonte Sepicciano 20 XII 1938
Prata 29 IX 1962
Pratella 23 XI 1970
Raviscanina 18 VII 1941
S. Gregorio 21 VI 1895
S. Potito 15 IX 1922
S. Angelo – S. M. d. Valle …1917
Valle 27 XI 1923
Azione cattolica. A Piedimonte, precorse l’A.C.I., il circolo “Dio e Patria”, interparrocchiale, fondato nel 1909, che Papa Pio XI premiò con medaglia d’argento.
Nel 1931 il vescovo Noviello costituì la Giunta diocesana. L’organizzazione, nei quattro rami, è presente in molte parrocchie, ed a Piedimonte tiene anche associazioni derivate A.C.L.I., C.I.F., e O.D.A.-O.N.A.R.M.O.
Non sono da trascurarsi iniziative che, pur essendo temporanee, hanno avuto un’influenza nel popolo.
A Piedimonte, S. Maria Maggiore e l’Annunziata hanno due organizzati oratori per fanciulli. L’Annunziat mise su nel 1937 il “boccone del povero”, dal ’39 ebbe i “ritiri di perseveranza”, e le “lampade viventi per l’adorazione”. Commoveva vedere centinaia di foto di soldati presso l’altare dell’Immacolata, e ad essi fu dedicata la “ora del soldato”; nel ’42 si aggiunsero i “sabati dello studente”. Passati i giorni della tragedia, e venuti i mesi della fame, nel ’44 ci furono i “refettori del Papa”, che per tre anni dettero una minestra a 350 bambini di Vallata. Per anni, in entrambe le parrocchie è durata la “conferenza di s. Vincenzo de Paoli”.
È la testimonianza dell’agire tipicamente meridionale, instabile forse su un solo oggetto, ma che offre continuamente, se si sa variare lo stimolo e la visuale.