Gentilissimo sig. Direttore,
Mi chiedeste come e dove avess’io trovato, in una chiesa di Roma, ricordo di un Principe di Piedimonte ad un Cardinale suo parente, ed eccomi a contentarvi, avvertendo che ve ne scrivo da dilettante, senza arrogarmi alcuna autorità, la quale è tutta contenuta nelle indicazioni bibliografiche che vi segnalerò.
Fu leggendo uno dei tanti preziosi libri, che l’on. Senatore Lanciani, professore di topografia antica, ebbe a pubblicare per istruzione degli stranieri (e quanti italiani non sono tali, anche al presente, in questo genere di studi?) che a pag. 56, là dove parla delle condizioni sanitarie di Roma antica e della Cloaca massima, trovai notizia di una lapide commemorativa con la seguente iscrizione, soprastante al celebre mascherone della “Bocca della Verità”, l’una e l’altro da lui bellamente riprodotti in una tavola illustrativa. Ne rimasi colpito e la curiosità m’indusse poi ad approfondire quelle ricerche che, dandomi ora occasione a scriverne, furono per me sorgente di svago e profitto. L’epigrafe dice così:
D.O.M.
FRANCISCO.S.R.E.CARDINALI.CAIETANO
HVIVS.SACROSANTAE.BASILICAE.DIACONO
BONIFACJ.VIII.FRATRIS.FILIO
PROBITATE.MORVM.SCIENTIA.CANONVM
REBVSQVE.GESTIS.PRECLARO
HONORATVS CAIETANVS.DE.ARAGONIA
EX.VETERIBVS.FVNDORVM.COMITIBVS
LAVRENTIANAE.DVX.XI.AC.PEDEMONTIS.PRINCEPS.XVIII
GENTILI.SVO.MONVMENTVM.HOC.POSVIT
ANNO.AB.INCARNATIONE.DOMINI
MDCCLXXXVI
Si trattava quindi di un Cardinal Gaetani, diverso di nome e di tempo da quell’energico Cardinale Enrico, nipote del Cardinal di Sermoneta (Nicolò), di cui parla pure il Lanciani in altro libro, e che, all’avvicinarsi del Giubileo del 1600, per ripulir Roma dalle immondizie che ne bruttavano le vie e dai majali che vi circolavano liberamente, emise il bando di severe pene (tre tratti di corda e carcee ad libitum) a chiunque vi cadesse in contravvenzione! Si trattava, invece del Cardinal Francesco, nipote di Bonifacio VIII, Diacono della Basilica di S. Maria in Còsmedin, altrimenti detta (e lo è tuttora dal popolo) della Bocca della verità, antenato di tre secoli all’altro, e contemporaneo di Dante, che ben sappiamo qual posto riservò al Papa di lui zio, in quella certa buca della terza bolgia d’Inferno (canto XIX).
Mi condussi allora sul posto, nel portico della nominata Chiesa, dove il Lanciani, scrivendo nel 1891, indicava appunto esistere la suddetta lapide, della quale però, per i sapienti restauri eseguiti qualche anno dopo, si vede ora soltanto l’impronta sulla parete in cui era murata, al di sopra della Bocca delle verità, di cui dirò appresso e che, sostenuta da un capitello di colonna, vi è tuttora appoggiata a sinistra di chi entra. La lapide ha trovato più degno loco nel corridoio laterale alla navata di destra, che è tutto coperto anche per terra di altre lapidi, ed è la prima in alto, a sinistra di chi vi accede passando avanti alla sacristia. Mi prese poscia vaghezza di leggerle tutte, per chi sa potessi saperne di più (dal Parroco c’era poco da sperare), e fu così che, pur in alto a sinistra, di là dell’arco che dal corridoio mette nella navata, è simmetricamente disposta un’altra lapide con la seguente epigrafe:
D.O.M.
JOANNI.S.R.E.CARDINALI.CAIETANO
EX.PERVETUSTA.COMITVM
AC.DVCVM.CAIETANORVM.GENTE
QVI.ANNO.MCXVIII.AD.SVMMVM.PONTIFICATVM.ASSVMPTVS
GELASIVS.II.EST.APPELLATVS
QVOD.DIACONIAM.HANC.A.PASCHALI.II.INSTITVTAM
PRIMVS.ADMINISTRAVERIT.REDDITIBVS
AVXERIT.SANCTORVM.MARTIRVM
RELIQVIIS.LOCVPLETAVERIT
INSIGNIS.EIVSDEM.SACROSANCTAE.BASILICAE
ARCHIPEPRES.ET.CANONICI
MONVMENTUM.HOC.POSVERE
ANNO.A.REPARATA.SALVTE
MDCCLXXXVI
Lo stesso anno, quindi, in cui il nostro Principe di Piedimonte pensò a dedicare quella lapide al suo illustre parente, l’Arciprete ed i Canonici della Basilica di S. Maria in Còsmedin, “tempio celebre per la sua antichità e nobile struttura”, secondo un chirografo di Clemente XI (1715), per non restar da meno del Duca di Laurenzana, apposero anch’essi la loro alla memoria del Cardinal Giovanni Gaetani, poi Papa Gelasio II, il quale fu il primo Cardinal Diacono di cui si trovi certezza che prendesse la denominazione dal titolo della sua Diaconiò, (e la tenne per 30 anni, dal 1088 al 1118), precedendo così di poco più di due secoli il Cardinal Francesco, entrambi benefattori, fra i parecchi Cardinali e Papi, di quella Basilica. Le due iscrizioni che ho riportate furono però pubblicate dal Forcella, come ebbi dipoi a riscontrare per mia curiosità, né poteva essere altrimenti.
Dopo il contenuto, veniamo ora un po’ al contenente, all’insigne Basilica, una delle più antiche di Roma, compresa nella zona monumentale, e nella quale i frammenti marmorei staccati ai monumenti dell’Urbe imperiale son ricomposti in un ordine nuovo uscente dall’anarchia, come un sogno pietrificato nei colonnati, al dire dello Gnoli. È un gioiello di architettura, dei più eleganti, ma bruttamente incastonato in un mostruoso prosaico stabilimento industriale, che lo recinge da due lati. A guardarne, da mezzo il ponte Palatino, lo svelto e bel campanile, forse un po’ troppo alto rispetto alla piccola mole della chiesa, fra i due più alti fumajuoli del “Molino e Pastificio Pantanella”, vien fatto sì di pensare a quegl’illustri Vandali del Rinascimento, come li chiama il Lanciani, che distrussero il tempio e l’ara massima di Ercole sorgenti in quei pressi, ma anche ai non meno illustri riedificatori della nuova Roma, che, permettendo costruzioni mastodontiche, deturparono una località resa sacra dall’antichità classica. La Basilica, che secondo l’Armellini risalirebbe come Diaconia urbana ai tempi delle persecuzioni e precisamente, secondo il Crescimbeni che ne fu lo storiografo, a Papa S. Dionigi, (ed una lapide presso la sacristia ne fissa la data al 271), fu ingrandita da Adriano I (VIII sec.) e d’allora fu detta in Còsmedin, dal greco bizantino che equivale ad abbellita, ornata, pomposa, mentre prima era detta in Schola Graeca, per un ospizio o congregazione di Greci ivi presso esistente, e di cui sopravvive memoria nella via della Greca che fiancheggia la Chiesa dal lato dell’Aventino.
Ora è più popolarmente conosciuta sotto il nome della Bocca della verità, che è un gran disco di marmo, del diametro di m 1,75 e dello spessore di una ventina di centimetri, una specie di macina per molino, scolpita però a bassorilievo da raffigurare una luna piena o meglio l’Oceano, una faccia cioè d’uomo con la bocca aperta e con due buchi per occhi, ad quam (buccam veritatis) homines se espurgaverant: virtutem autem suam per unam mulierem perdidit, secondo ne scrisse il canonico Castelli, (sec. XVI) patrizio mantovano, benemerito di essa Chiesa. Quel mascherone diede parecchio da discutere agli eruditi passati e presenti, chi volendo che fosse destinato a chiudere l’imbocco dell’acqua piovana in una chiavica (e la Cloaca massima è lì presso) e chi piuttosto un coperchio di pozzo sacro a Mercurio, che Ovidio indica non molto lontano di là. Era presso i tempi puteali che i mercanti prestavano giuramento di onestà, ed i mercanti convengono anche al presente lì presso, a piazza Montanara, l’antico Forum olitorium (mercato degli erbaggi). Dalla leggenda popolare che, introducendo la mano in quella bocca il bugiardo ve la lasciasse presa e tronca, è derivata quella denominazione di Bocca della verità: leggenda che fa capo non solo alla storiella antica di una fanciulla impudica che vi restò punita a quel modo, ma anche all’altra di sapor Boccaccesco, più a noi vicina, e di cui è cenno nel Crescimbeni, relativa ad una donna adultera, che seppe però bellamente burlare il marito fintosi pazzo e i magistrati che la sottoposero a quella specie di giudizio di Dio! È stato sempre tanto popolare quel lapis rotundus ad dispositionem faciei et vultus, qui dicitur Bucca veritatis, che, nel 1832, al poeta romanesco Gioacchino Belli, illustratore di usi, costumi e tradizioni popolari, ispirò un mirabile sonetto dialettale sulla bugia; né lo spauracchio, che di quel faccione si fa ai bambini perché non dicano bugie, è peranco dileguato fra le mamme popolane del Rione Ripa e dell’opposto Trastevere.
Or tornando a bomba, non saprei dire come e perché al XVIII Principe di Piedimonte venisse in mente di applicare quella lapide proprio al di sopra della Bocca della verità, la quale, da fuori che era, appoggiata al muro della facciata, fu trasportata nel 1632 (e questi pochi lo sanno) dentro il portico della Basilica dal canonico Don Ottavio Placidi, ma per bocca del Crescimbeni, altro canonico ed arciprete, che era un erudito (Custode d’Arcadia) del genere del nostro Don Trutta, posso fornirvi le seguenti notizie relative ai due Gaetani di quella Basilica, della quale ho trovato che nel 1626 era parroco un altro Don Francesco Gaetani.
Il Crescimbeni, in opposizione a quanto ne disse l’abate cassinese di S. Baronto D. Costantino Gaetani, dei Marchesi di Sortino (ramo di Sicilia), nei Commenti alla Vita di Gelasio II scritta dal cardinale Pandolfo Masca, patrizio Pisano, contemporaneo e familiare di quel dotto Papa, morto di scalmana (pleurite), in odor di santità, nel Cenobio di Cluny (29 gennaio 1119), pur convenendo che avess’egli arricchita la Basilica “di molti tenimenti e di altri beni stabili di grossissime rendite”, bene distinse l’opera dell’un Gaetani, dall’altro cardinal Francesco che era di un altro ramo, ossia nipote di Bonifacio VIII (Benedetto Gaetani), come chiaramente indica la nostra lapide, ed al quale è dovuto l’elegante tabernacolo gotico (cyborium) sorretto da quattro colonne, che accoglie l’altare, opera squisita Cosmatesca, prettamente romana, di quella fine del sec. XIII.
Ebbene, non cade dubbio che quel tabernacolo fosse fatto costruire di pianta dal Cardinal Francesco, non solo per notizia che se ne ha nell’Archivio della Basilica, ma anche per certa prova che ne fornisce la Scienza del blasone. Il Crescimbeni, infatti, vi ricorre, poiché sulle tre facce (laterali e posteriore) del ciborio sono scolpite le armi gentilizie dei Gaetani d’Anagni (due onde azzurre in campo d’oro), mentre quelle di Giovanni Gaetani (Gelasio II) sono della città di Gaeta (un quartiere rosso ed uno d’argento, opposti fra loro in diagonale da destra a manca), ossia di quel Gaetano di nome e di patria, figlio di Crescenzio I, Duca di Fondi, nato appunto in Gaeta. E cita in proposito il Ciacconio, che ne scrisse così: Dominus Joannes de familia Cajeta, Cajetanus, Campanus, Crescentii filius, nobili genere natus: quae familia de Cajeta in oppido Cajeta in oppido Cajetae tunc erat, ut ex antiquissimo Sacello in Ecclesia Sancti Francisci de Monte apparet, et nunc Neapoli inter Nobiles Sedilis Portus reperitur.
Il Cardinal Francesco, invece, non romano, per quale lo dà il Candida Gonzaga, ma Anagnino era di nascita, come ne attesta non solo il Crescimbeni, ma anche l’archivista di Casa Gaetani di Roma, signor Carinci. Questi però lo dà per cardinal diacono di S. Nicola in Carcere, poco lungi dalla Basilica che ci occupa, sbagliando anche nell’applicare ad esso l’appellativo di Tulliano, il quale spetta a S. Pietro in Carcere presso il Foro Romano, e confondendo deplorevolmente Benedetto Gaetani seniore, che nel 1281 Martino IV creò appunto cardinal diacono di S. Nicola in Carcere, con Benedetto Gaetani juniore, che, ad istanza dell’omonimo zio influente, Celestino V nominò nel 1294 cardinal diacono del Titolo dei SS. Cosimo e Damiano sul Foro Romano. Tutto ciò risulta chiaro dalle Memorie (in nove tomi) di Don Lorenzo Cardella, storiografo dei Cardinali. – Il Francesco in discorso fu, invece, fatto cardinal diacono di S. Maria in Còsmedin a’ 17 di dicembre 1295, e come tale si sottoscrisse alla Bolla di Benedetto XI (succeduto a Bonifacio VIII), relativa ai Monaci Celestini, a’ 15 di marzo 1304. “Fu uomo dottissimo, massimamente nelle leggi Canoniche, intorno all’interpretazione delle quali molto lo zio si servì… Morì in Avignone a’ 16 di maggio 1317”; sicché il Crescimbeni ne sapeva più del Carinci, dal quale si apprende soltanto che nel 1316 era ancor vivente, avendo chiesto a Papa Giovanni XXII la facoltà di testare.
Quanto alla paternità, l’un canonico scrittore lo fa discendere da Giofredo – altri vogliono da Pietro – così testualmente riferisce – ma l’altro scrittore archivista, al certo qui più attendibile, gli dà per fratello il detto Pietro, figli entrambi di Roffredo V Gaetani, di Anagni, Signore di Calvi e del Castello di Vairano (1282), amico e familiare di Carlo I e Carlo II d’Angiò, dal quale nel 1295 ebbe la contea di Caserta. (Il Candida Gonzaga lo riporta come Loffredo, altri come Goffredo). Questo ultimo titolo di Conte di Caserta passò quindi a Pietro, che militò col II Angioino nelle guerre di Sicilia, e poi divenne Signore di Sermoneta e Prefetto di Roma. A lor volta Roffredo V e Benedetto, che fu poi Papa Bonifacio VIII (riabilitato nel secolo scorso dal Padre Tosti Cassinese), sotto il cui Pontificato i Gaetani crebbero in tanta fortuna che tutte le superarono, al dire del medesimo Carinci, erano figli di Roffredo IV e di Emilia Conti, ricca ereditiera di famiglia patrizia d’Anagni e nipote (non sorella) di Papa Alessandro IV.
Qui c’è da smarrirsi nella numerazione dei nomi, poiché, stando al Conte di Castelmola (Onorato II) del 3° ramo Gaetani, l’imparentamento con la Conti (per cui questo casato si estinse in quello dei Gaetani, i quali così si trapiantarono in Anagni) avvenne con Loffredo o Goffredo I (1255), V Conte d’Alife. – Un’altra sconcordanza è nel nostro Principe di Piedimonte, del 1° ramo Gaetani, autore della lapide al parente Cardinal Francesco, perché, stando pure al Castelmola, non XI ma IX Duca di Laurenzana, né XVIII ma IV Principe di Piedimonte sarebbe stato Onorato (IV di questo nome) Gaetani d’Aragona. Certo però è che, per l’epoca (1786) in cui fu scritta quell’epigrafe, il nostro è quel Principe, dal cui matrimonio con Laura Serra di Cassano nacquero poi Antonio e Raffaele (oltre 5 figlie), e che fu chiaro per letteratura ed amministrazione, si trovò compromesso nei moti politici del 1799 e corse perfin pericolo di vita, per le idee liberali che professava. Crederei che la chiave della sconcordanza nell’anzidetta numerazione possa trovarsi in quella Real Carta, che nel 1715 venne rilasciata da Carlo II di Spagna al I Principe di Piedimonte, Nicola, con facoltà di farne risalire l’anzianità al 1503, mentre risulta che I Signore di Piedimonte e Gioia divenne Giacomo Gaetani (1400) XI Conte d’Alife, in seguito al matrimonio con Sveva Sanseverino (vedova di Arrigo della Leonessa), che n’era la feudataria.
E qui faccio punto, sembrandomi d’aver illustrata abbastanza la lapide dalla quale presi le mosse, e lasciando ai cultori di Araldica e di Alberi genealogici, lo sceverare le pezze onorevoli e i quarti di padronanza che son del caso nostro, poiché, se pur mi avanzassero i 30 o 40 anni di vita che il Ravennate conte Marcantonio Ginanni trova insufficienti per saperne a dovere di quella Scienza, non avrei testa né competenza per occuparmene. L’antico stemma gentilizio dei Gaetani era quello detto di sopra di Gelasio II, ma sarebbe curioso indagare perché Bonifacio VIII usò quello delle due onde, se cioè, come accenna il Carinci, per esprimere le due vittorie navali (?) contro i Saraceni, o se piuttosto per giustificare la profezia di S. Zaccaria – Ex undarum benedictione – che gli toccò per numero nel salire al Soglio Pontificio. Il conte di Castelmola però ci dice che le onde erano di Casa Conti, e così, dopo quanto ho dianzi accennato di quel matrimonio, se ne comprende più facilmente l’aggiunzione allo stemma dei Gaetani, esclusi però i rami di Pisa, Spagna, Firenze e Sicilia.
Per finire, avendo a principio accennato al cardinale Enrico, la cui ava paterna era una Beatrice Gaetani d’Aragona, non posso a meno di segnalare agli studiosi di arte ed archeologia Cristiana, il suo sepolcro in quella signorile Cappella Gaetani che è in S. Pudenziana, di cui era titolare, una delle due chiese di Roma che con S. Prisca sull’Aventino risale ai tempi Apostolici. Quel sepolcro è da ricordare non tanto per la data della morte (dicembre 1599) che vi si legge, per modo che non arrivò egli a vedere il Giubileo dell’anno appresso, per il quale aveva minacciate quelle pene che sappiamo agl’imbrattatori di Roma, quanto per l’addebito che gli muovono tuttodì gli archeologi, ad es. il Lanciani, di aver fatta malamente restaurare una chiesa, che possiede il più antico mosaico (IV sec.), quello dell’abside, il quale per la costruzione della cupola restò mutilato delle figure di due Apostoli. E così, mentre l’un cardinale, Francesco, abbelliva sul cadere del Dugento S. Maria in Còsmedin, l’altro, Enrico, (di Bonifacio, IV Duca di Sermoneta), tre secoli dopo (1588) non fu fortunato nei restauri di quell’altra Chiesa, che rappresenta in Roma l’avanzo autentico di una primitiva domus ecclesiae, qual era la casa di preghiera del Senatore Pudente, l’ospite amico degli Apostoli Pietro e Paolo.
Ve ne ho dette forse troppe, gent.mo sig. Direttore, ma Roma è così, l’una sua memoria tira l’altra, e non si finirebbe mai, per cui a malincuore molte altre cose mi restano nella penna; voi però trarrete da questa mia le notizie che fanno per il vostro Archivio Storico regionale, per quei rapporti che gli studiosi potranno trovare fra i diversi rami dello stesso ceppo, procedente da quell’Anatolio, tribuno delle milizie romane o generale, come oggi diremmo, (intorno al 730 di nostra era), divenuto poi Signore od Ipato di Gaeta, in premio del suo valore. Ab uno disce omnes.
Credetemi con cordiali saluti.
Aff.mo Giovanni Petella