La caccia sul Matese tra storia e tradizione

Primo a collaborare nella collana “Documenti per la storia dei paesi del Medio Volturno”, Rosario Di Lello, medico umanista, è il primo a pubblicare nella collana “Liberi Studi” della nostra Associazione storica.

Questa sua indagine si avvale di studi filologici che risalgono alla terminologia latina e dialettale, si poggia sopra esperienze personali nella tecnica delle armi e della caccia, si chiarisce con la conoscenza storica del territorio, si proietta nella psicologia della pratica venatoria a volte feroce, lascia trasparire infine, il grido d’allarme e di soccorso per la vita dei selvatici in estinzione.

È il caso di dire: dalla storia alla tecnica, dalla tradizione alla visione morale della caccia. Il solo leggere questa pubblicazione è, in definitiva, un istruirsi.

Dante B. Marrocco

La benevola accoglienza incontrata da “La caccia nella Comunità montana del Titerno” e i consensi pervenuti da più parti del Matese, mi hanno incoraggiato a rivisitare l’argomento al fine di inquadrarlo nella storia e nell’attualità di un territorio più vasto.

Dedico questo studio a mia figlia Paola e ai giovani come lei, e faccio voti che, nell’affrontare la vita da uomini liberi, non prescindano mai dal rispetto per se stessi, per i loro simili e per tutto ciò che è Vita e principio di Vita nell’ambiente che li circonda.

Rosario Di Lello

“Chi vò li figli puveregli
gl’adda fa acciappaucegli”

(Antico proverbio del Matese)

Tra la Campania e il Molise, a confine delle province di Caserta, Benevento, Campobasso e Isernia, imponente s’erge il Matese. Questo gran monte si estende per quasi 1000 Kmq e comprende territori di 50 comuni popolati da circa 125.000 abitanti.

“Furono intorno a lui anticamente quattro principali città de’ Sanniti, fondate in quattro parti poco meno l’una dall’altra distanti. Dalla parte di Oriente eravi la città di Telese (…) dal Settentrione è Boiano, dall’Occidente estivo sta Isernia, e da Mezzogiorno vedesi Alife.

Le sue cime si vedono la più gran parte dell’anno ricoperte di nevi. Perciò il nostro Paterno cantava:

…fra quanto s’erge
Distende e mostra il nostro Re de’ monti
L’alto Matese, a cui gelate nevi
Ancor quando in Leone il Sole alberga
Copron il mento, e la canuta testa.

Egli è sterile alquanto e petroso, ma ottimo per pascolo di animali, come infatti vi sono di essi mandre non poche, così di pecore, dalle quali si tosano finissime lane, come di capre, di vacche, e di bufoli, che danno preziosi formaggi; ma non vi mancano piani che si seminano a buon formento (…) altri a grano germano detto Segala o Mischiato di segala. Le sue gran selve sono di faggi.

Nel mezzo del suo piano maggiore è un lago, che più miglia circonda (…) Sgorgano sopra di esso Monte innumerabili limpide e fresche sorgive, e vi scaturisce dalla parte di Settentrione il fiume Biferno. (…) Abbonda un tal monte ben anche di erbe di frutici i più ricercati e stimabili”.

Il Matese è luogo di caccia, fin dalla Preistoria.

I primi documenti che hanno parlato dell’esistenza dell’uomo molto prima dei periodi così detti storici, sono stati resti di industrie: pietre più o meno grossolanamente scheggiate e lavorate in modo da servire come armi-utensili per una esistenza nomade caratterizzata dalla caccia e dalla raccolta dei frutti spontanei della terra e vissuta in tempi la cui lontananza ammonta a centinaia di migliaia di anni.

“Arma antiqua manus ungues dentesque fuerunt
et lapides et item silvarum fragmina rami… »

Lucrezio
(De rerum natura, V, 1283-84)

Col trascorrere dei millenni, l’uomo, associato in gruppi, non mutò la sua vita di cacciatore errante, condizionato, come era, dalla necessità di luoghi sempre nuovi e ricchi di selvaggina. Migliorò, è vero, i sistemi di lavorazione, perfezionò gli strumenti di caccia, produsse l’amigdala scheggiando un nodulo di selce o di altro grosso ciottolo, continuò, tuttavia, a seguire ed a spingere verso preordinate insidie, rinoceronti ed elefanti, orsi e bisonti, cinghiali daini e cervi; li catturò, li uccise; ne mangiò le carni, si coprì con le loro pelli e, con le ossa, pavimentò le fragili ed umide capanne, costruite quando non trovò grotte ospitali.

Una parte di quell’avventura immane si svolse alle falde del Matese in un paesaggio a steppa-prateria arborata e solcata da corsi d’acqua, diverso da quello attuale.

Tutto ciò trova testimonianza nei giacimenti portati alla luce in località La Pineta di Isernia, nei manufatti litici rinvenuti in Piedimone, Cerreto e Guardia, nell’amigdala di Faicchio.

Dalla fine del Paleolitico e nel Mesolitico, gli aspetti geografico e climatico si assestarono e, con essi, si stabilizzarono le forme attuali di flora e di fauna. Nel Neolitico, l’uomo produceva oggetti diversificati: utensili domestici e di lavoro, lame levigate e taglienti, punte di lance e di frecce. Usò l’arco e pose fine al nomadismo venatorio per risiedere dentro villaggi stabili dove allevò mansueti animali dai quali traeva latte, carne e pelli. Nel periodo successivo, i manufatti litici vennero sostituiti con gli analoghi in metallo. Le pelli, intanto, facevano luogo al tessuto in lana, la manifattura della terracotta subiva miglioramenti, si sviluppava l’agricoltura. L’uomo, dunque, era diventato pastore e agricoltore, tuttavia, per necessità, dedito ancora alla caccia. Era passato dalla condizione di nomade ad una vita stabile, organizzata nell’ambito della famiglia e del villaggio.

Non mancano documenti di queste lontane presenze nei tenimenti di Piedimonte, Telese, Guardia, Morcone, Cusano, Faicchio e San Potito. Si tratta di una produzione silicea costituita da cuspidi di lance e di frecce e da lame a costola e a foglia di misure diverse.

Nell’età del ferro già avanzata, entrarono nella storia i popoli dell’Italia preromana e, tra essi, i Sanniti. Distinti nelle tribù dei Caraceni, dei Pentri, dei Caudini e degli Irpini, i Sanniti occuparono una vasta area, delimitata a nord dal fiume Sangro e dalle terre dei Marsi e dei Peligni, a sud dal fiume Ofanto e dalle terre dei Lucani, ad est dal Tavoliere di Puglia e dalle terre dei Frentani, e ad ovest dalla Pianura Campana e dalle terre degli Aurunci, Sidicini e Latini. Il paese corrisponde, approssimativamente, alle attuali province di Campobasso, Isernia, Benevento e Avellino. Sul massiccio del Matese (mons Tifernus) s’erano insediati nei centri megalitici di Isernia, Longano, Campochiaro, Boiano, Terravecchia di Sepino, Letino, Monte Cila, Monte Erbano e Monte Acero.

Benché il Sannio fosse povero di pianure estese e fertili, i Sanniti praticarono l’agricoltura estensiva nelle plaghe più feconde. Coltivarono a frutteti, a orti ed a frumento le valli del Volturno, del Calore e del Biferno; diedero inizio allo sfruttamento dei boschi (finalizzandolo, tuttavia, alla coltura della vite e dell’olivo); resero rinomati i vini del Beneventano, dal lieve aroma affumicato, e le olive di Venafro. Nelle terre inadatte alla coltura, svilupparono l’allevamento del bestiame e, sul Matese in particolare, la produzione dei latticini.

La società sannitica, priva di governo centrale e retta dalla ristretta cerchia delle dinastie familiari, deve aver avuto caratteristiche servili e feudali. “Il Sannita medio poteva non essere schiavo, ma è certo che la sua era una vita di lavoro e di sacrificio alle dipendenze del signore locale”.

Dato il tipo di società e di economia, non è improbabile che, così come altre tribù ed in particolare gli Irpini, le popolazioni del Matese abbiano praticato la caccia, finalizzata non tanto allo svago quanto alla protezione delle colture dai selvatici nocivi, alla difesa degli armenti dai predatori ed alla ricerca di pelli e di carni imposta dalle necessità domestiche.

È verosimile inoltre che, nell’esercizio venatorio, abbiano fatto uso prevalente di insidie ed eccezionale di armi metalliche, riservando il ferro, largamente importato, alla produzione dell’equipaggiamento bellico.

Nel Novembre dell’82 a.C., a conclusione di una plurisecolare rivalità, i Sanniti, nella battaglia di Porta Collina, persero contro i Romani l’ultima opportunità d’indipendenza. Silla ne decise lo sterminio e le stragi e le distruzioni furono di tale portate che “all’interno del Sannio fu pressoché impossibile individuare il Sannio”. Iniziava, da quel momento, il lento costante processo di romanizzazione. I residui elementi della cultura sannitica in parte si estinsero, in parte confluirono e si diluirono in quella dei conquistatori.

Presso i Romani la caccia per divertimento pare sia stata introdotta dai Greci, nel II sec. a.C. Trovò ben presto così larga diffusione, in particola modo tra i giovani, che pure le donne ne furono prese. “Caccia, bagni, giochi e risate, questo è vivere”, dicevano i Romani. Non si può, tuttavia, escludere che i giovani liberi, pur senza attendere l’insegnamento greco abbiano fatto per diletto ciò che gli schiavi facevano per obbligo – distruggere gli animali nocivi ed arricchire la mensa del padrone – e i cacciatori di mestiere e gli indigenti, per necessità – “procacciarsi la vita con la caccia”.

Documenti dell’epoca, letterari e figurativi, seppure attinenti la caccia in generale in età romana, danno un’idea di come dovette essere, nei tipi e nei modi, la pratica venatoria tra le popolazioni del Matese dopo la conquista.

I Romani esercitavano l’arte venatoria, comunque finalizzata, nelle due forme di: caccia ai quadrupedi (venatio) ed uccellagione (aucupium); prima e/o a conclusione delle fatiche di caccia, erano soliti offrire a Diana sacrifici propiziatori e/o di ringraziamento.

La “venatio” praticata in gruppo, consisteva nello scovare e uccidere la preda. Individuato il terreno frequentato dalla selvaggina, gli schiavi lo recintavano con reti a maglie larghe (retia) e con lunghi fili ai quali venivano sospese piume di uccelli dai vivaci colori (formidines). Lo sbarramento delle reti e degli “spauracchi” tracciava un percorso obbligato che conduceva a reti a maglie strette tese tra alberi (plagae) o a forma di sacco (casses); le prime venivano usate per immobilizzare la selvaggina di grossa taglia, le altre per catturare quella minuta. Nel giorno della battuta, i cacciatori, (venatores) vestivano appropriati abiti leggeri (aliculae) che ne agevolassero i movimenti, proteggevano gli arti inferiori con “fasce crurali”, calzavano sandali (crepides) e prendevano posto lungo i percorsi ed al termine degli stessi. Il capocaccia (magister canum), schiavo addetto all’allevamento e all’addestramento dei cani, teneva dietro, coi segugi e con gli schiavi battitori (vestigatores), alle orme della selvaggina. Stanatala, la inseguivano e la indirizzavano, con schiamazzi, lungo i percorsi. I cacciatori, appostati, tentavano di colpirla con la fionda (funda) e con i giavellotti (iacula, lanceae). La cacciagione che non cadeva uccisa o ferita, proseguendo nella corsa, finiva nelle reti e veniva abbattuta a colpi di giavellotto o di coltellaccio (culter venatorius). Per affrontare le belve ferite e inferocite, si faceva uso del “venabulo”, le cui due alette contrapposte in punta tenevano la fiera, trafitta, a distanza di sicurezza dal cacciatore.

Nella pratica venatoria isolata, il cacciatore tentava di catturare l’animale disponendo lacci (laquei) e laccioli (pedicae) o attirandolo dentro profonde fosse dissimulate con rami e frasche.

Un tipo di caccia, particolarmente faticoso, consisteva nell’inseguire a cavallo la lepre e, raggiuntala, colpirla in movimento con un bastone.

Meno faticosa e per nulla rischiosa era l’arte dell’uccellatore (auceps). Nei luoghi aperti, stendeva al suolo la rete, la cospargeva di becchime e, per richiamo, usava il canto di uccelli accecati e legati per le zampe, oppure la civetta o anche il fischietto (fistula) col quale imitava il canto dei volatili da catturare. Tirava lestamente la rete quando un buon numero di uccelli vi s’era raccolto sopra.

Nell’aucupium con la pania, l’uccellatore, spingeva, con precauzione, lunghe canne (calami) impaniate, in alto, tra i rami degli alberi. Gli uccelli saltando sulle canne vi rimanevano presi. Catturava, infine, i grossi rapaci usando come esca una colomba, legata per le zampe, tra grosse canne impaniate, e stimolata a librarsi in volo.

Con i Romani, il rapporto uomo-fauna non si esaurì nelle motivazioni e nelle manifestazioni venatorie descritte.

Gli aborigeni e le comunità agro-pastorali sannitiche avevano cacciato per necessità e legnato per esigenze domestiche e per tenere attive le piccole industrie ceramiche, tessili, conciarie e metallurgiche. “Le guerre puniche imposero il primo disboscamento delle dorsali appenniniche per allestire flotte in breve tempo. Tagliato e trasportato lungo i fiumi da appaltatori in perenne contrasto con gli agricoltori, il legname affluiva nei cantieri dove la quantità più resinosa veniva trasformata in pece per impermeabilizzare natanti e contenitori di carico” ed il restante in fasciame.

Lo sfruttamento distruttivo delle aree forestali continuò con lo sviluppo tecnologico, nei secoli successivi. Il legno, fonte di calore e di energia, trovò impiego nella produzione di calce e mattoni per l’edilizia di un urbanesimo crescente, nelle industrie metallurgiche, chimiche, tessili, della ceramica e del vetro, nelle opere di carpenteria e nella produzione di mobili, nel riscaldamento ambientale privato e termale pubblico. “Declassate le preesistenti colture, provocata l’erosione e l’impoverimento del suolo, soprattutto in una zona climatica come quella beneventana dove le foreste si ricostruiscono con difficoltà per cause geologiche e l’alternarsi di inverni piovosi con estati calde, la colonizzazione romana, col sistema agronomico del maggese biennale e i rapporti di produzione ad esso connessi, completò il condizionamento del paesaggio”.

L’uomo aveva dato l’avvio allo sconvolgimento dell’ambiente faunistico.

L’attività venatoria, durante il Medioevo, venne dovunque svolta per necessità più che per svago.

Per quanto attiene il Matese, giova ricordare che il territorio subì le invasioni barbariche, le incursioni saracene, le continue lotte feudali. Avvilite da condizioni di indigenza e di penuria alimentare, le popolazioni, costrette da motivi di sicurezza al ricorrente pendolarismo pianura-montagna, riscoprirono nel fiume e nel lago, nel bosco e nell’acquitrino, inesauribili riserve di cibo. Il contadino-pastore, dunque, tutelato dal principio consuetudinario che la selvaggina era “res nullius”, dovette, per poter sopravvivere, saper trarre profitto dai lacci, dalle reti e dalle panie, non meno che dall’aratro e dallo stazzo in tempo di pace.

I tipi di caccia erano numerosi nel Medioevo. Il “livre de la chasse” descrive e minuziosamente illustra tutti gli espedienti messi in atto contro la selvaggina, fino al modo di mimetizzare i valletti sotto acconciature di frasche. La cacciagione era tanto abbondante che una sola battuta ne procurava per molte settimane; eppure, i cacciatori procedettero con tanto impegno che, dopo qualche secolo, larga parte della selvaggina risultava sterminata.

I sistemi adottati nella zona, non altrettanto numerosi né raffinati, varianti di tecniche ereditate dai Romani, non differivano da quelli, all’epoca, conosciuti altrove.

Per la caccia ai quadrupedi, oltre ai “cani conduttori”, tenuti al guinzaglio e spinti da battitori a cercare la preda, venivano impiegati i segugi (segusii) e i levrieri (veltres) che, ad olfatto e rispettivamente a vista, quando scovata, la inseguivano e la spingevano verso le reti dove i cacciatori, in attesa, erano pronti a colpire con gli spiedi e con le picche (pili fortes). Per catturare i predatori di grossa taglia, il cacciatore li attirava, altresì, dentro tagliole di ferro o dentro fosse, usando come esca piccoli animali da cortile.

Diffusa era la caccia ai volatili per mezzo di corde o di rami impaniati, e di reti. L’erpicatoio, particolare tipo di rete, veniva lanciato sulla preda puntata dall’ausiliario.

I lacci consistevano in cappi a nodo scorsoio costruiti o con crine di cavallo, e tenuti da archetti di giunco quasi a fil di suolo, o con corde che, legate ad un ramo piegato e messo in tensione, scattavano alla più lieve trazione. Venivano destinati, rispettivamente, ai volatili alla pastura e ai quadrupedi.

A differenza della caccia notturna con la fiaccola, perfezionata nei secoli successivi in quella con la lanterna, la pratica venatoria con gli archi con le balestre e con i falconi, abituale svago della nobiltà, si presentava insolita nel territorio.

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Nel sec. XVI, il territorio era ancora popolato da selvaggina abbondante e varia: vi nidificavano i fagiani, pernici e starne, vi si riproducevano cinghiali, cervi, camosci e lepri; gli orsi e i lupi, numerosi, causavano ripetute distruzioni di armenti.

Gli strumenti per uso di caccia rimanevano tradizionali.

Leggi locali la disciplinavano, ma non in tutte le Università.

Considerevole, per contenuti, si rivela il complesso di norme, attinenti la materia venatoria, ratificate per l’Università di Cerreto nei “Capitula transactionis” e negli “Statuta”. La caccia “de qualsivoglia animali terrestri, aquatici, o aerici” era libera “come antiquamente è stata a li homini (…) in tutto lo territorio de contado salvo de Starne e Fasane qual sia in potestà del Signore defensarla”. Era vietato portare “arma prohibita et molita (…) balista, vel scoppitta”. Chiunque, uomo o donna, avesse rotto o devastato siepi di chiuse, allo scopo di cacciare animali selvatici, avrebbe dovuto, se accusato, pagare due tarì e riparare il danno. La cacca alla lepre, con laccio e reti, era consentita sui monti, sopra Cerreto ed a Montalto, era proibita a valle del centro abitato, pena l’ammenda di due tarì; era altresì consentito cacciare, dovunque e senza licenza, la lepre col solo cane e gli altri animali con lacci, reti o “venabulo”; il feudatario riservava al proprio “sollazzo” la caccia con la rete a fagiani, starne e pernici; la multa a carico dei bracconieri era di due tarì.

Dai “capitula” e dagli articoli statutari traspare l’esigenza e l’intendimento di tutelare la sicurezza individuale e pubblica attraverso il divieto di armi improprie, di difendere la proprietà fondiaria e le colture dall’invadenza dei cacciatori e dei selvatici nocivi, di proteggere gli armenti dai predatori, di garantire le scorte carnee ai poveri ed il divertimento ai ricchi, per mezzo della caccia praticata con sistemi tradizionali.

Durante il sec. XVII ed ancor più nel successivo, lo sviluppo industriale e mercantile dei centri maggiori del Matese incentivò la pratica venatoria con arma da fuoco ed il consumo della polvere da sparo.

Nel Cerretano prosperava l’industria armentizia; le manifatture tessili di Piedimonte, Cerreto, Cusano e Morcone, e la ceramica di San Lorenzello andavano imponendosi sui mercati di Terra di Lavoro e di Molise; Guardia produceva ed esportava pellami e vini; in Piedimonte si affermava un’industria della polvere pirica.

L’uso dell’arma da fuoco raggiunse larga diffusione. In Cusano, ad esempio, non fu possibile “prohibire li cittadini di detta Terra a portare, et andare a caccia con scoppette a miccio et a grillo purché non siano contro la forma della Regia prammatica e mentre il Demanio è libero di detta Università… Con licenza però di nostri Officiali, quale non li sarà negata; non chiedendola perda l’arma”. In Cerreto, invece, il Conte, sollecitato dall’Università, poté soltanto imporre il divieto di “tirare archibusciate per mezzo miglio intorno alle Palombere” e la pena non lieve di tre ducati, a carico dei trasgressori. In Piedimonte, infine, il Feudatario, rifacendosi ad un privilegio concesso da Carlo V nel 1517, aveva tentato di proibire ai vassalli la caccia nelle terre appartenenti a Casa Gaetani; i contravventori sarebbero stati puniti con la multa di dieci ducati, con la confisca dell’arma e con due mesi di carcere. I vassalli contestarono tale diritto e ricorsero al potere regio; il Gaetani non potendo dimostrarne il legittimo possesso, ricorse all’espediente di prendere in fitto, dalla Regia Corte, la concessione delle licenze di caccia e, in tal modo, incamerò un utile di circa 40 ducati l’anno.

Vero è che il fiorire dell’industria e del commercio si accompagnava ad uno stato di agiatezza crescente, tuttavia, per la maggior parte delle popolazioni, in particolare per le classi rurale e bracciantile, le condizioni di vita permanevano precarie. E mentre i poveri continuavano a disporre trappole ed a tendere lacci, i benestanti adottarono, in tempi successivi, “scoppetti” a miccia e a ruota e fucili a pietra focaia sempre più funzionali.

Il meccanismo “a miccia”, fissato in un incavo sul lato della cassa, davanti il calcio e sotto lo scodellino portapolvere solidarizzato di lato alla culatta, consisteva in una piastra di ferro che, alle estremità anteriore e posteriore, portava imperniate una serpentina, terminante in un morsetto serramiccia, ed una leva arcuata spinta verso il basso da una molla e da un braccio snodato. Tirata in alto, la leva muoveva il braccio e abbassava la serpentina; la miccia, in tal modo, dava fuoco alla polvere contenuta nel sovrastante scodellino e quindi, attraverso un foro della canna detto “focone”, alla carica nella camera di scoppio.

Il congegno “a ruota” era essenzialmente costituito da una piastra portante cane e ganasce, bacinetto porta polvere e ruota d’acciaio zigrinata, fissa al perno di carica parte di un braccio su cui agiva il grilletto. Operando sul perno, con apposita chiave, si caricava la ruota spostandola di tre quarti di giro in senso antiorario; si immetteva polvere da innesco nel bacinetto e si abbassava il cane fino a livello dello stesso. Premendo il grilletto, la ruota girava in avanti, sfregava contro un pezzo di pirite serrato tra le ganasce e liberava un fascio di scintille che infiammava la polvere d’innesco e, attraverso il focone, quella carica nella camera di scoppio.

Nel meccanismo “a pietra focaia”, il cane, al momento dello sparo, veniva spinto in avanti dalla pressione sul grilletto; una scaglia di selce, stretta tra le ganasce, colpiva il copribacinetto ribaltandolo e producendo scintille che accendevano la polvere d’innesco e, con essa, la carica di canna.

Tra quanti praticavano, per un motivo o per l’altro, attività venatoria sul Matese si distinse Aurora Sanseverino Gaetani, poetessa dal temperamento forte ma gentile. La Principessa di Piedimonte si cimentò nella caccia al cinghiale e, oltre a trarne ispirazione poetica, seppe considerarla nella reale accezione di sport: mezzo di fuga dagli affanni quotidiani finalizzata, nel contesto dell’ambiente, alla verifica costante della identità individuale.

Tutti, comunque, chi per indigenza, chi per difendere colture ed allevamenti, e chi per svago, contribuivano, con un tipo di caccia incessante e destruente, al depauperamento di alcune specie stanziali. I maggiori responsabili erano i possessori di armi da fuoco. La loro ostinazione giungeva al punto che, durante i mesi invernali, molti tra i più avventati, mettendo in pericolo la propria vita, tagliavano lastre di ghiaccio dalla superficie del lago e con esse costruivano capanne dalle quali tiravano contro gli anatidi di passo, abbondanti in quella stagione.

Nella seconda metà del ‘700, lo stato del patrimonio faunistico appariva non del tutto compromesso. Nei boschi del Massiccio si riproducevano ancora “orsi e cinghiali”, nondimeno v’era chi ammoniva con malcelata ironia: “…sul Matese… abbonderebbe la selvaggina se la moltitudine degli animali domestici e i loro cani la lasciassero in pace”.

Tra la fine del sec. XVIII e i primi anni del successivo, il basso costo delle licenze di caccia contribuì all’ulteriore diffusione dell’esercizio venatorio. Il fenomeno interessò, peraltro, tutta la provincia di Terra di Lavoro e il numero delle richieste e delle concessioni fu tanto elevato che i “distributori”, presenti in quasi tutte le università, trassero buona parte del loro sostentamento dal reddito di esazione. Sviluppo analogo dovette aversi, per gli stessi motivi, pure nel Contado di Molise.

A differenza della caccia con panie, lacci, reti e tagliole, quella con armi da fuoco era dispendiosa, se si considera il costo dell’arma, della munizione e dell’abbigliamento. Il cacciatore “tipo” indossava calzoni di panno, lunghi a ginocchio, tenuti da un cinturone di cuoio a fibbia dorata, camicia bianca, camiciola, corpetto e giubba; calzava lunghi stivali che, allacciati sul dorso del piede e fino al terzo superiore di gamba, terminavano poco sopra il ginocchio; copriva il capo con cappello a tesa larga e portava un fazzoletto annodato al collo ed una sacca di munizione a tracolla; era armato di lungo fucile monocanna con batteria a pietra focaia e di due pistole tenute da una fusciacca che, dal cinturone, pendeva sopra una coscia.

Coloro i quali esercitavano la “caccia per oggetto di guadagno” riuscivano ad ammortizzare le spese attraverso il consumo o la vendita della selvaggina catturata o uccisa.

La cacca all’orso offriva alcuni motivi di guadagno. Il cacciatore ne vendeva il grasso – ricercato dalla medicina per la produzione di rimedi – e la pelle, tolta alla belva subito dopo uccisa ed aspersa con una miscela di sale e allume. La pelle “di stagione”, ossia dell’orso ucciso da Ottobre a Novembre e pertanto di pelo lucido e folto, aveva un valore di 12-15 ducati, se larga otto palmi, di 25 fino a 40 ducati, se più larga. Qualcuno era solito mangiare la carne dell’animale e, pare, che il sapore non differisse da quello del caprone; i cacciatori riservavano per sé le zampe e con esse preparavano una vivanda che trovavano squisita. Altro guadagno, infine, proveniva dai cuccioli: allevati con pane e con latte di pecora o di capra e ammaestrati, venivano dati in fitto o venduti a compagnie di girovaghi. Il fitto rendeva 1/3 dell’intero guadagno annuo, detratte le spese; la vendita procurava un profitto di 60-100 ducati.

La battuta all’orso si svolgeva nel modo seguente: individuato il luogo frequentato dalla fiera, numerosi battitori, non meno di una ventina, la scovavano e la indirizzavano verso gli agguati, con urla, fischi, sassate e frastuono di strumenti fragorosi. I cacciatori, numerosi e ripartiti in gruppi di tre, per prestarsi all’occorrenza reciproco aiuto, attendevano in silenzio, coi fucili carichi e a baionetta inastata. Quando la belva capitava a tiro, esplodevano il colpo e rimanevano immobili finché non fossero stati certi di averla uccisa; in tal modo, poiché l’orso ha la vista corta, avevano la possibilità di sottrarsi alla reazione violenta dell’animale soltanto ferito.

Là dove regnava l’orso ed in luoghi ancor più inaccessibili, viveva, raro, il camoscio, oggetto di caccia a motivo della carne non diversa, per sapore, da quella della capra domestica.

La vendita delle pelli di tasso, lepre, volpe, puzzola, martora e faina, ai cappellai di Campobasso, di Agnone e di Terra di Lavoro, era fonte di ulteriore profitto.

Il cacciatore seguiva sulla neve le tracce “pedate” di questi animali e, pervenuto alla tana, dava fuoco a sarmenti umidi posti davanti l’ingresso; il selvatico rimaneva soffocato o, se avesse tentata la fuga, ucciso a fucilate. Nella Primavera, lepri e volpi venivano attese dal cacciatore al limite del bosco allorché, dopo il tramonto, ne uscivano alla ricerca di cibo, o all’alba, vi facevano ritorno.

Una buona pelle di lepre o di volpe si vendeva a carlini tre; da otto a 12 carlini si pagava quella di tasso o di faina, a 15-25 un pelle di lupo.

Il lupo, quando non cadeva, adescato da un pezzo di carne, in qualche grossa “tagliuola” dentata, finiva ucciso all’agguato.

Un qualche profitto si traeva pure dalla caccia agli anatidi. Questi migratori, conosciuti nelle loro varietà sotto il nome dialettale di “papere”, “mallardi”, “capoverdi”, e “marzaiole”, venivano presi con gli “archetti” o abbattuti “all’imposto” con armi da fuoco, nei luoghi pantanosi e sul lago del Matese tra Novembre e Marzo. Beccafichi e allodole, “cucciarde”, costituivano, tra Agosto e Settembre, materia di vendita nei mercati locali.

La “caccia per divertimento… forma(va) una potente passione che non si spegne(va) con l’avanzare degli anni”. Tutte le classi, in diversa misura, ne prendevano diletto.

La pratica venatoria con lo schioppo era la più diffusa. Nella variante “d’aspetto” diurna, si faceva uso dell’esca. Le allodole venivano attratte con lo “specchietto”, sorta di marchingegno rosso, ornato di piccoli specchi e mosso da funi o da una corda d’orologio. Per adescare i colombi selvaggi, il cacciatore poneva sopra un albero e ben in vista un piccione legato ad una tavoletta forata; le corde, passando attraverso i fori, giungevano al cacciatore; questi, nascosto dentro una capanna, tirando le corde, stimolava il volatile a librarsi in volo e, in tal modo, a richiamare le torme di colombi a tiro di schioppo.

La caccia notturna “della prima ora” aveva inizio al tramonto e durava fino a quando la visibilità concessa dalle ultime luci consentiva di abbattere i volatili “a volo”. La variante “della seconda ora”, praticata al chiaro di luna da numerosi cacciatori disposti in circolo per il fuoco incrociato, si protraeva fino alle prime luci del nuovo giorno.

La battuta per divertimento a lepri, caprioli e cinghiali non era diversa da quella già descritta per l’orso. Altro tipo di caccia al “porco selvatico” consisteva nell’attirarlo, con esca di spighe di grano sparse nel luogo frequentato dall’animale, fin sotto un albero sul quale il cacciatore aveva preso posto.

La caccia senza schioppo, meno diffusa, ma non per questo meno divertente, faceva uso di sistemi tradizionali modificati attraverso i secoli.

Per prendere uccelli acquatici e beccaccini, il cacciatore disponeva nei luoghi paludosi, lungo il corso dei canaletti o in mezzo ai pantani, “archetti” costruiti con crini di cavallo e muniti di nodo corsoio. La selvaggina vi rimaneva accalappiata nel recarsi all’abbeverata e alla pastura.

Poiché i tordi si cibano di olive, il cacciatore costruiva in un oliveto una capanna e, su di essa, una gabbia di bacchette cosparse di vischio. Sul far dell’alba, si celava in quel nascondiglio e, col richiamo “zufolo o ciufolo”, imitava lo zigolare del volatile. Gli uccelli, adescati, si posavano sulle bacchette rimanendovi impaniati.

Per prendere il maschio della quaglia venivano usati il “quagliere” ed una rete di colore verde. Il “quagliere” consisteva in una piccola borsa di pelle che portava legato alla estremità un osso cilindrico segnato da una profonda incisura longitudinale. Il volume della borsa e la lunghezza dell’incisura erano tali che la fuoriuscita dell’aria riproduceva il canto della quaglia. Tra Maggio e Giugno, dopo aver teso la rete sui culmi, in un campo coltivato a grano, il cacciatore si celava dietro un riparo e, toccando il quagliere, ad intervalli di qualche minuto, dava inizio al richiamo. Il maschio, rispondendo ed avvicinandosi, finiva per trovarsi sotto la rete. A questo punto, il cacciatore usciva con strepito dal nascondiglio ed il volatile, librandosi in volo, rimaneva impigliato.

La caccia con lo “scacciafumo” si faceva tra Dicembre e Gennaio, nelle notti oscure e piovigginose. Quattro cacciatori procedevano lentamente: il primo riproduceva con un campanaccio, nel tono e nel tempo, lo scampanio prodotto dalle mandrie al pascolo e, in tal modo, ingannava la selvaggina adusa a quel suono; il secondo l’abbagliava per un attimo con la luce accecante di una lanterna “a occhio di bue” schermata nella faccia posteriore, “scacciafumo”; il terzo la catturava con una rete cilindrica, la cui imboccatura rimaneva aperta sopra un largo cerchio di legno, inchiodato in un suo punto all’estremità di una pertica; il quarto, infine, la uccideva e la riponeva in un sacco. Questa caccia, data dai “giovinastri” in particolare alla lepre, riusciva assai dannosa ai campi seminati e, benché fosse stata proibita nelle pianure alifane, “la gioventù e la passione la vincevano coll’infrazione degli ordini”.

L’attività venatoria finalizzata alla “distruzione” di talune specie animali, per la salvaguardia della pastorizia e della agricoltura, era assai diffusa.

Dei tipi di caccia ai quadrupedi dannosi ala pastorizia e all’agricoltura è stato detto.

Tra i volatili nocivi, i frisoni e le ghiandaie “si distruggevano” con lo schioppo e i passeri in parte col fucile, in parte col fumo prodotto sotto le piante a notte avanzata, in parte con la rete nella quale rimanevano impigliati quando, nella calura estiva, calavano a bere nei coppi ripieni d’acqua sistemati dai contadini nella rete medesima.

Il corvo dei campi, considerato il più dannoso, migrando arrivava in Novembre e, scorrendo da un campo all’altro, viveva, fino alla primavera, a spese e a danno dell’agricoltura. Le “ciavole”, questo era (ed è) il loro nome volgare, erano oggetto di caccia col “dugo” e col “cornetto invischiato”. Il primo metodo consisteva nel legare un gufo ad un cavalletto e nel sistemarlo in luogo aperto a poco distanza da un albero per quanto possibile, spoglio di fronde. Attratti dalla strana figura di quell’uccello, i corvi si avvicinavano appollaiandosi sull’albero e davano modo al cacciatore di tirare a colpo sicuro. I cornetti invischiati altro non erano che coni di carta aventi l’orlo invischiato e, sul fondo, un pezzetto di carne cotta o un granello di mais, sistemati in un campo aprico. Quando il corvo introduceva il capo, per beccare il contenuto del cornetto, rimaneva impaniato nel cappuccio molesto, si agitava, si sollevava in altissimo volo verticale e, spossato, precipitava al suolo.

L’Ottocento fu secolo di sconvolgimenti politici e sociali ricorrenti che incisero, in vario modo e in diversa misura, sull’attività venatoria.

Nel Marzo del 1806, dopo che la Corte borbonica minacciata dall’esercito francese s’era rifugiata in Sicilia, sul trono di Napoli era salito Giuseppe Bonaparte. Il 15 Luglio 1808, al Bonaparte succedeva Gioacchino Murat. La politica francese promosse numerose riforme, tuttavia non risolse la crisi industriale, commerciale ed economica ingravescente e, con essa, la disoccupazione, l’indigenza ed il malcontento popolare. Nel contesto di movimenti insurrezionali di più vasta portata, finalizzati alla restaurazione borbonica, pure sul Matese dilagò la guerriglia e numerosi pastori, contadini e carbonai, cacciatori in tempo di pace, si convertirono in briganti e, fino al 1815, tormentarono il territorio.

La riduzione del numero dei cacciatori autorizzati e il declino dell’esercizio venatorio rispecchiavano analoga situazione diffusa nelle province di Terra di Lavoro e di Molise.

Rispetto agli anni che avevano preceduto “le combustioni politiche, allorché (…) il numero delle licenze era grandissimo”, nel decennio francese, i cacciatori registrati, in Terra di Lavoro non superavano le 2000 unità. Altri erano privi della licenza o perché svolgevano compiti di pubblica sicurezza e di sorveglianza pubblica e privata, o perché vivevano in siti remoti dove potevano eludere i controlli della gendarmeria, o perché non avevano le qualità richieste dalla legge, o perché non si trovavano nella condizione di pagare il diritto di concessione – salito, intanto, a 20 carlini – e preferivano, piuttosto, esporsi al pericolo di arresto per porto abusivo d’arma da fuoco; questi armati non eccedevano il migliaio. In Molise, il numero dei cacciatori regolari oscillava intorno alle 570 unità.

La flessione dell’attività venatoria sul Matese va riportata pure alla riduzione complessiva della selvaggina, alla rarefazione di alcune specie e alla scomparsa di altre. La caccia e la mutazione dell’habitat, indotta dai continui disboscamenti, imposti dalle esigenze domestiche e industriali e dalla ricerca di terre vergini e sempre più fertili, avevano arrecato un danno incalcolabile al patrimonio faunistico del luogo. L’evento ecologico si manifestò in tutta la sua drammatica consistenza, e fu denunziato, nei circondari di Cusano e di Cerreto. Scomparsi gli ultimi cervi e camosci, migrati i residui cinghiali sul Taburno, diventati rari i lupo e rarissimi gli orsi, più non si praticò “alcun metodo per distruggerli” e, per conseguenza, più non fu “alcun pubblico uso o stabilimento per siffatte operazioni”. La scarsa cacciagione no costituì più “oggetto di profitto” né di “gusto e inclinazione” per la maggior parte dei cacciatori; i pochi irriducibili si servivano soltanto di schioppi.

Nel quinquennio successivo al ritorno dei Borboni sul trono di Napoli, venne perfezionata la regolamentazione della caccia. Appassionato ed assiduo cacciatore fin dalla giovane età, Re Ferdinando I si preoccupò, è vero, di ripristinare e tutelare le riserve reali e, tra esse, quelle di Querciacupa, Montecalvo ed Alife, in Terra di Lavoro, no mancò, tuttavia, di disciplinare, per i sudditi, i tempi e i modi dell’esercizio venatorio e di proteggere la proprietà fondiaria privata, dall’intrusione dei praticanti, attraverso il divieto di accesso “negli altrui fondi chiusi da mura fabbricate o da mura a secco, da siepi, da fossati, da ripari di terra che giung(e)vano a palmi cinque”.

L’attività venatoria segnò altra battuta d’arresto, ancorché di breve durata, a causa dei moti carbonari del 1820. Nel Luglio di quell’anno, il generale Guglielmo Pepe ed un gruppo di ufficiali borbonici, sostenuti dall’esercito e da alcune “popolazioni in armi”, imposero al Re ed ottennero la Costituzione. Al fine, inoltre, di armare una legione carbonara, i generali comandanti le divisioni militari e i comandanti delle province furono sollecitati “a mettere in opera tutto il loro zelo ed attività per eccitare il patriottismo dei cittadini (a cedere) temporaneamente ai Legionari dei fucili di qualunque calibro conservandone uno per proprio uso”. Le autorità competenti, animate da “santo zelo”, curarono la più ampia divulgazione della richiesta tra i Sotto Intendenti e tra i Sindaci; non si sa in qual misura i cacciatori del Matese abbiano risposto alle dette sollecitazioni “patriottiche”.

Deciso a ristabilire l’antico ordine, il Sovrano invocò l’intervento dell’Austria. Il 7 Marzo 1821, a Rieti, le forze austriache dispersero l’esercito dei rivoluzionari. Il 31, re Ferdinando decretava il disarmo e ordinava:

I permessi di armi di qualunque natura rilasciati precedentemente alla pubblicazione del suddetto decreto s’intendono revocati e annullati.

Dall’indicato 31 Marzo ed in appresso saranno unicamente rilasciati dalla Direzione Generale di Polizia i permessi d’armi per lo solo uso di caccia, in favore di que’ Cittadini la cui buona condotta morale, attaccamento all’ordine pubblico, e sistema di vivere tranquillo, non meno che il non essere prevenuti di alcun reato fanno considerarli meritevoli del godimento di un tal beneficio. Ogni altra Autorità non può, né deve avere veruna facoltà di accordarli.

Le domande di detenere o asportare le armi da caccia saranno presentate, per la Provincia di Napoli, a’ Commissari de’ Quartieri o agl’Ispettori Commissari de’ ripartimenti, e per le altre Provincie di questi Reali dominij a’ rispettivi Intendenti. Ciascuno per la sua parte ne trasmetterà alla Direzione Generale di Polizia gli stati colle convenienti osservazioni sul conto de’ petizionari, e coll’analogo parere.

La medesima Direzione Generale in vista di questi stati deciderà sul rilascio di tali permessi, che conterranno pure la descrizione de’ fucili che il petizionario potrà detenere, ed il loro numero non più oltre di due.

Gli individui che appartengono o abbiano appartenuto alla Guardia di Sicurezza, ed alle Milizie Provinciali han bisogno del permesso della Direzione Generale di Polizia, per non essere considerati contravventori.

Guardacaccia Ordinari ed estraordinari delle Reali riserve, i guardaboschi e i guardiani rurali oltre della patente di nomina della propria amministrazione per l’esercizio dell’impiego, che occupano, debbono pure andar muniti del permesso d’armi.

Gli uomini addetti al servizio della polizia nella Provincia di Napoli da ordinarij, ovvero da estraordinarij non saranno considerati come tali se detenendo o asportando il fucile per uso del loro disimpegno, non siano provveduti del corrispondente viglietto della Direzione Generale di Polizia.

Gli individui appartenenti alla forza attiva Doganale faranno uso delle armi del proprio corpo, allorché sono in servizio. Essi non potranno conservare in casa alcun’arma senza il dovuto permesso”.

Gli intendenti trasmisero ai Sindaci copia del decreto.

Le restrizioni imposte alla “libertà della caccia” avevano, intanto, favorito il ripopolamento spontaneo di alcune specie: lepri e volpi si erano moltiplicate, era ritornato il cinghiale e ricomparso il camoscio, i lupi si spingevano numerosi ad assalire armenti e stalle isolate. Non ritornò l’orso: era scomparso per sempre.

La normativa che regolava la concessione dei permessi di detenzione e porto d’armo venne aggiornata nel 1858 a motivo, probabilmente, della cospirazione dei comitati mazziniani e dei conseguenti conati insurrezionali. “Fermi rimanendo i regolamenti in riguardi”, si sarebbe dato corso alla domanda per l’esercizio 1858 soltanto se con la stessa fossero stati presentiti: atto di nascita del richiedente, contestante l’età di anni venti compiuti; fedi di perquisizioni negative del Giudicato Regio del Circondario e della Gran Corte Criminale della provincia; certificato del Parroco e del Sindaco, rilasciati gratis, attestanti che il richiedente era immune da reati, di sana morale e di regolare condotta. Per coloro i quali avevano ottenuto il permesso d’armi nell’esercizio 1857 e ne chiedevano il rinnovo, era sufficiente esibire la sola domanda in carta da bollo con la indicazione dell’età, nome del genitore, patria e condizione del richiedente, corredata del permesso d’armi già ricevuto e della corrispondente licenza di caccia. All’atto della presentazione della domanda, doveva depositarsi nell’Intendenza il diritto di carlini due.

Per quanto concerne le armi da fuoco, i ritrovamenti, ancora oggi non rari, inducono a credere che, sul Matese, i fucili erano ormai quasi tutti a percussione: i nobili e i borghesi usavano doppiette e monocanna “a luminello”, l’umile gente riciclava “a luminello” i vecchi fucili “a pietra”. In effetto, quel nuovo meccanismo, ingegnoso e funzionale, era stato ottenuto negli anni 1815-20 avvitando nel focone il “luminello”, piccolo cilindro metallico forato e, pertanto, comunicante con la camera di scoppio. Semplice ne era l’uso: dopo aver caricata la canna, il cacciatore “cibava”, ossia empiva di polvere il luminello e quindi lo occludeva con una capsula sul cui fondo era stratificato del fulminato di mercurio; all’atto dello sparo la capsula, percossa dal cane a martello, veniva schiacciata, il fulminato esplodeva e la fiamma si propagava alla carica di canna.

Il decennio postunitario fu per la caccia periodo di crisi. Garibaldi dal sud e l’esercito piemontese dal nord avevano invaso il Regno di Napoli. La Capitale era stata occupata. Re Francesco II di Borbone s’era arroccato in Gaeta per l’ultima disperata resistenza e aveva chiamato i sudditi alla guerriglia. Le perturbazioni economiche, conseguenti ai rivolgimenti politici, creavano profondo disagio che in maggior misura coinvolgeva i ceti umili già provati dala miseria. “Il tacito malcontento sfociò in proteste di elementi isolati. Sporadiche all’inizio e spontanee, vennero (…) alimentate, orientate e utilizzate dalla parte borbonica. Il concorso di popolo non si esaurì in più o meno violente manifestazioni di piazza ma, in breve volger di tempo, dette luogo alla costituzione di agguerrite bande armate” nelle quali erano confluiti, in prevalenza, contadini, pastori e soldati del disciolto esercito borbonico. Si entrava nella fase calda della guerriglia che avrebbe tormentato, per dieci lunghi anni, le province meridionali.

Tra le forre del Matese si aggirarono, ma alla ricerca di ben altra preda, bande di partigiani borbonici, in maggioranza armati di fucili da caccia, pattuglie dell’esercito “italiano” e squadriglie di guardie nazionali. Il massiccio, su tutta la sua proiezione fu teatro delle loro gesta. Queste, il divieto di accesso ai monti, il pericolo d’essere disarmati dai briganti e la pena capitale a carico di coloro i quali fossero stati sorpresi con le armi in pugno, scoraggiarono il residuo numero dei cacciatori non ancora impegnato nella guerriglia. Vi fu, tuttavia, chi in quegli anni richiese il porto d’armi, probabilmente più per difesa personale che a motivo di autentica passione per la caccia. Per ragioni di pubblica sicurezza, non a tutte le domande fu dato corso.

La cattura di Alessandro Pace e degli ultimi suoi gregari, in una grotta tra Pietraroja e Morcone, segnò, nell’Agosto del 1869, la fine del brigantaggio sul Matese. Con la lenta ripresa delle attività agricola e pastorale e con la libera e sicura frequentazione del massiccio, iniziava il ritorno all’attività venatoria.

Estinte alcune specie, altre erano diventate oggetto d caccia. I cacciatori abbattevano lepri, martore, faine volpi, gatti selvatici e puzzole, dette “pelusci”; prendevano i ricci con l’ausilio dei cani da notte; non si curavano “dello storno, dello strillozzo, fringuello, pica, passero, beccafico, laniere o paglionica” e delle allodole; preferivano, piuttosto, tordi e merli, palombi e tortore, quaglie, starne e pernici, beccacce e beccaccini, pivieri, vanelli e anatidi.

I “dilettanti” trovavano nella caccia “innocente e salutare divertimento”; i contadini, sempre abili nel maneggio delle armi, “dotati di una vista lincea e celeri nel moto, ne forma(va)no oggetto di speculazione” nei giorni in cui non potendo lavorare a causa delle avverse condizioni del tempo, cacciavano e vendevano la selvaggina a compratori che, periodicamente, l’esportavano nella capitale; gli agricoltori ed i pastori, infine, trovavano indispensabile distruggere i volatili nocivi e di “rapina” e i quadrupedi predatori.

Nel XIX secolo, si distinsero nell’arte balistica i Ciarleglio, i Barbieri e Pietro Antonio Venditti, da Cerreto. Il Venditti, nato nel 1828, ebbe vita avventurosa; espatriato in Torre Annunziata, prese a costruire fucili e pistole a retrocarica. Regalò alcuni suoi pezzi a Re Vittorio Emanuele, all’Imperatore di Russia al Principe ereditario di Prussia e all’ambasciatore americano.

“Sul fenomeno del brigantaggio s’era, intanto innestato un evento di non minore portata: l’emigrazione di fine secolo, verso le Americhe. Dopo alcuni anni di lavoro, i più fortunati ritornarono portando con sé armi americane, ed è così che spesso dalle nostre parti, si ritrovano doppiette Hammerles, Winchester 96 a pompa, Winchester 66, 73, 92, 94, Remington, Sharp, ecc.”.

“Erano i primi semiautomatici, armi eccezionali, armi da invidiare se si considera che la maggior parte dei cacciatori locali, usava ancora la doppietta a luminello. Ancora oggi, a quasi un secolo di distanza, i nostri vecchi, parlando di armi antiche dicono “chigliu teneva nu’ reflu americanu che su partava ra “merica” (in inglese, rifle = fucile)”.

Durante la prima metà del Novecento, giorno dopo giorno, la caccia per svago con arma da fuoco ha conquistato maggiore popolarità. Protagonisti, fianco a fianco, di non rare e tuttora decantate battute, i ricchi hanno fatto mostra di doppiette a retrocarica e di cartucce industriali, i non ricchi hanno ostentato, ad emulazione, antiche “scoppette” a luminello o rielaborate a retrocarica da anonimi artigiani del luogo ed hanno usato munizione spesso “fatta in casa”. La polvere è stata prodotta rimestando in un mortaio, come da antico procedimento, dosi variabili di polvere di zolfo, salnitro – ricavato dallo stabbio – e carbone vegetale; la munizione spezzata è stata ottenuta sminuzzando fili metallici o lasciando cadere, attraverso uno schiumino o una padella forata sul fondo e in un recipiente contenente acque, piombo fuso di vetuste condutture o di residuati bellici.

Quelle antiche armi e i relativi accessori presentano, nelle parti duttili, decori di una qualche pretesa artistica, più o meno sontuosi, commessi all’artigiano dall’acquirente o praticate sull’oggetto dal proprietario o dall’estemporaneo armiere.

Il calcio dei fucili, in legno di noce, è decorato con motivi astratti o geometrici, con elementi floreali a intaglio, con sculture zoomorfe, di regola teste di cinghiali o di cigni. Lo stato di conservazione è, spesso, mediocre ed il pezzo necessita soltanto di un modesto intervento di pulitura e di lucidatura.

Le “fiasche portapolvere” sono state prodotte lavorando corni, bovini e caprini. La loro forma si riduce a due tipi: il modello conico segue la normale morfologia della materia, il modello schiacciato è stato ottenuto plasmando la materia sopra forme di legno dopo averla pulita dalla lamina interna e resa duttile attraverso bagni in acqua bollente.

Le dimensioni variano in rapporto alla funzione: i polverini grossi contenevano polveri di canna, i piccoli polvere da esca per il luminello, “pizzetto”.

Le decorazioni interessano tutta la superficie dell’oggetto o parte di essa; sono costituite da motivi naturalistici antropomorfi, fitomorfi, zoomorfi, e/o astratti. La tecnica di lavorazione ha utilizzato, di volta in volta, impressioni a fuoco, incisioni e intagli diversi per ampiezza e profondità, bassorilievi più o meno aggettanti, sculture a tutto tondo.

Lo stato di conservazione è, quasi sempre, mediocre presentando l’oggetto tarlature sul fondo ligneo e fissurazioni, scheggiature e incrostazioni superficiali. Scrostato con cautela, deterso con alcool denaturato, nebulizzato con spray siliconati e asciugato con panno morbido, l’oggetto riacquista la primitiva bellezza.

Questi cimeli, ormai desueti, resistendo all’edacità del tempo, alla rapacità dei sedicenti “antiquari” ed all’incuria dei proprietari, sono giunti fino a noi per consegnarci un messaggio di storia e per testimoniare di una cultura popolare sempre più evanescente.

Nel corso degli eventi bellici del 1943 (così come nel 1915-18) le genti del luogo non hanno avuto né la possibilità né il tempo di dedicarsi alla caccia di massa e, pertanto, hanno facilitato il ripopolamento della selvaggina residua.

Dalla metà del secolo, i cacciatori non usavano più fucili ad avancarica ma, a motivo del benessere economico, soltanto a retrocarica. Alcuni sostituiscono, almeno una volta ogni anno la loro arma con modelli più recenti; altri possiedono più di un fucile, di tipo, marca, e calibro diversi.

I giovani, nell’acquisto dell’arma, danno la preferenza al “sovrapposto” ed al semiautomatico, gli adulti alla doppietta a cani interni; gli uni e gli altri privilegiano il calibro 12; il cal. 16 è stato il fucile di moda nella prima metà dei secolo.

Le cartucce, a bossolo semplice o corazzato, sono di fabbricazione industriale; non pochi cacciatori, tuttavia, trovano dilettevole ed economico il caricarle in modo artigianale servendosi dei vecchi utensili, o di moderni congegni automatici che provvedono al dosaggio di polvere e piombo, al borraggio, all’occlusione e all’orlatura.

Il cacciatore, in particola modo il “novizio”, cura l’abbigliamento e considera la vestizione un rito. Indossa, abitualmente, camicia a quadroni; pantaloni lunghi, di panno o di cotono secondo le stagioni; panciotto a cartuccera; giacca o giubba. Calza, sopra i pantaloni, stivali di gomma vulcanizzati, lunghi a ginocchio o ad inguine. I colori dell’abbigliamento sono nelle tonalità del verde oppure mimetici, del tipo militare. Usa cartuccera a cinturone, dalla quale pendono un coltello a serramanico con estrattori ed un carniere a laccioli. Si copre con cappello a falda o a visiera.

È opportuno ricordare, a questo punto, il prezzo medio attuale degli articoli di più largo uso:

Fucile semiatomatico 550
Fucile sovrapposto 650
Fucile doppietta 850
25 cartucce semplici 5
10 cartucce corazzate 3
Cartuccera 10
Coltello 7
Camicia 25
Pantalone 30
Panciotto-cartuccera 18
Giubba 50
Stivali a ginocchio 30
Cappello a tesa 16
Carniere a laccioli 3

Accurata è la scelta dell’ausiliario, in rapporto al tipo di caccia, e indiscusso ne è l’acquisto. Non di rado, il cacciatore alleva e addestra cuccioli di non pura razza, ricevuti in dono. Di regola, lo Spinone trova impiego nella caccia agli acquatici, il Bracco, il Setter ed il Pointer in quella alla quaglia, alla starna, alla beccaccia e al fagiano; il Segugio in quella alla lepre e al cinghiale. Bracco e Spinone vengono considerati, per la loro non eccessiva velocità, “cani riposanti” e, pertanto, adatti a cacciatori non più giovani o non particolarmente mobili. Il prezzo di un cucciolo di razza, garantita da certificato dell’Ente Nazionale Cinofili Italiani, oscilla dalle 400 alle 500 mila lire.

Sul costo di un’annata venatoria incidono, altresì, la licenza di prima concessione o il rinnovo del porto d’armi, la tassa regionale e l’assicurazione dai danni a terzi.

Il Matese non è tutto accessibile alla caccia da quando sono state istituite delle zone chiuse sul versante campano (con legge regionale del 3 Dicembre 1980, n. 74, art. 5) e sul molisano. Le “zone di ripopolamento e cattura”, in numero di quattro, si estendono nei tenimenti di Morcone-Sassinoro, Casalduni-Ponte-Fragneto Monforte, Cerreto, San Gregorio-Piedimonte-Castello-San Potito; le “oasi di protezione della fauna” si estendono nei tenimenti di Cusano-Pietraroja e Letino-Gallo. Sul versante molisano, è chiusa alla caccia la bandita demaniale di Monteroduni.

La pratica venatoria, al presente finalizzata al puro divertimento, viene, per tradizione, ancora distinta in caccia “a penna” ed “a pelo”. Sono oggetto della prima, la tortora “trutta”, la quaglia, l’allodola “cucciarda”, il tordo “marvizzu”, la beccaccia “arcèra”, la storno, il merlo, il colombo selvatico “turchianu”, il beccaccino, il fagiano “fasana”, la starna, la pavoncella, la ghiandaia “pica”, il corvo, il beccafico “migliozza”, la gazza, la cesena, e specie diverse di anatidi “mallardi, capoverdi e marzaiole”. Tra i quadrupedi, sono soggetti a caccia il cinghiale, la lepre e, da pochi cacciatori, la volpe. Pernici e lupi sono protetti perché in via di estinzione.

Dal numero dei tesserini regionali ritirati nel corso della stagione venatoria 1986-87, si desume che, nei Comuni facenti parte del Matese, praticano attività venatoria 5.917 cacciatori così ripartiti:

Isernia 583
Cantalupo 50
Castelpizzuto 42
Longano 55
Macchia d’Isernia 34
Monteroduni 80
Pettoranello del Molise 12
Roccamandolfi 49
Sant’Agapito 56
Santa Maria del Molise 15
Bojano 178
Campochiaro 38
Guardiaregia 50
San Massimo 15
San Polomatese 23
Sepino 120
Morcone 210
Sassinoro 15
Casalduni 90
Guardia 430
Ponte 100
San Lorenzo Maggiore 80
Telese 245
Cerreto Sannita 360
Cusano Mutri 196
Faicchio 320
Pietraroja 15
Pontelandolfo 115
San Lorenzello 130
San Lupo 35
San Salvatore Telesino 190
Piedimonte Matese 502
Ailano 71
Alife 307
Capriati 90
Castello Matese 16
Ciorlano 38
Fontegreca 45
Gallo 15
Gioja Sannitica 133
Letino 15
Prata Sannita 75
Pratella 74
Raviscanina 120
Sant’Angelo d’Alife 185
San Gregorio Matese 31
San Potito Sannitico 92
Valle Agricola 15

La caccia di frodo è fenomeno sporadico rispetto al ventennio post-bellico allorché è stata praticata largamente e con varianti moderne di metodi tradizionali. In quegli anni non lontani, i bracconieri hanno, tra l’altro, utilizzato torce elettriche per sorprendere gli uccelli nel nido; si sono mimetizzati sotto candidi lenzuoli per tendere insidie, nel paesaggio innevato, agli anatidi di passo sul lago; appostati sopra gli alberi, hanno atteso immobili, al chiaro di luna, la volpe o il tasso alla pastura; hanno sostituito, nella caccia alla lepre, la “mazza” il “cavallo” e lo “scacciafumo”, col fucile e con i potenti fari di automobili, lanciate all’inseguimento del selvatico; hanno “fucilato” lupi dopo averli adescati con “bocconi alla stricnina”.

Gli Uffici provinciali della caccia provvedono, con “lanci” periodici di starne, pernici, fagiani, lepri e cinghiali, alla ricostituzione del patrimonio faunistico.

Il cinghiale e la lepre trovano rifugio pressoché ideale nel folto dei boschi residui; non altrettanto può dirsi per i volatili stanziali, molto più sensibili alle alterazioni dell’ambiente ed esposti ai rapaci e ai predatori.

I ripopolamenti periodici e le opportune leggi protettive tutelano, è vero, il patrimonio faunistico dall’estinzione, ma per quanto altro tempo ancora? “Il foglio 10 US della Carta della Montagna (Tav. A) entro il quale è compreso il Matese, pone in rilievo come l’ecosistema bosco sia stato manomesso e smembrato dall’uomo”.

“A metà degli anni ’30, era possibile, sparando dalle dighe un volatile acquatico, andare a prenderlo a nuoto; e ciò avveniva nel mese di settembre, epoca dell’apertura della caccia in montagna coincidente col periodo di minor invaso (…). Oggi (1977), dopo ben 54 anni utilizzazione del bacino, sarebbe impossibile (…) poter nuotare nelle acque di un lago che in settembre (…) si riduce quasi ad un pantano. Ciò è dovuto solo in piccola parte ai depositi torbosi originatisi dalla vegetazione lacustre (…) essenzialmente agli apporti stereometeorici conseguenti all’erosione superficiale (…) ed a quella, indubbiamente di maggiore entità, che si verifica nelle incisioni (…) I descritti fenomeni sono pienamente spiegabili per la natura dei suoli che si rinvengono in tutto il bacino imbrifero, permeabili e di facile erodibilità, nonché per il cattivo uso del pascolamento (…) e gli indiscriminati tagli di estese superfici boscate, verificatesi negli ultimi 40 anni”.

Come se tutto ciò non bastasse, gli incendi sempre più numerosi ed estesi, i disboscamenti e i dissodamenti estensivi, le strade disutili e mal tracciate, le cave, le discariche inquinanti e le intemperanze di certo turismo, continuano ad imprimere profonde ferite. Il Matese, dunque, si prepara ad accogliere soltanto cinghiali e cani ferini, volpi e ratti, rettili e insetti, in buona compagnia dell’Homo atomicus e dei suoi pingui e bolsi animali di allevamento.

Ma questo è altro discorso.

Qui, invece, è opportuno mettere in rilievo che quanti si reputano “cacciatori autentici” in effetto si informano o trattano di caccia sulla stampa specializzata, rispettano le norme venatorie, tengono a vile i bracconieri, amano distinguersi dagli “sparatori balordi”, detestano gli “appostamenti”, si mostrano decisi, nel corso della battuta, a colpire ma non per il piacere di uccidere, gioiscono quando la selvaggina rimane “stoppata” cioè fulminata, provano disappunto se cade ferita ed è necessario il colpo di grazia, sorridono, non di rado, quando “se ne va” incolume.

Questi cacciatori vedono nella pratica venatoria il mezzo salutare – ma non insostituibile – per evadere dalla stressante routine quotidiana e vivono nella caccia un complesso di momenti suggestivi e tra essi imprescindibili: la programmazione della battuta, la scelta della munizione e dell’arma, l’incontro con persone amiche, la scoperta di territori mai visti prima o di luoghi da sempre frequentati e pur sempre nuovi, il superamento di difficoltà d’ogni genere attraverso l’impegno psicofisico, il lavoro dell’ausiliario, l’abbattimento del selvatico o il colpo fallito, i commenti talvolta salaci, il festoso ritorno, il ricordo di una giornata diversa, piacevole anche quando non sia coronata dal successo.

La caccia, dunque, racchiude in sé spirito ludico, agonismo e impegno fisici – che, per definizione, costituiscono l’elemento caratterizzante le discipline sportive – e, pertanto, viene considerata, a ragion veduta, come una delle varianti dello sport. È indispensabile, tuttavia, che la Società, in vorticoso progresso in un’epoca di conclamata civiltà qual è quella attuale, senta il dovere di interrogarsi, di appurare e di codificare, senza ipocriti pietismi, ma con sereno intendimento, se sia giusto e dignitoso che l’Uomo, salito sul gradino più elevato della scala zoologica, privi della Vita – in nome dello Sport – altri esseri i quali, oltre tutto, non sono “res nullius” né proprietà privata ma parte dell’ecosistema, costituiscono patrimonio comune inalienabile, da salvaguardare per le generazioni future.

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