PIETRAROJA, LASSÙ SUI MONTI DEL MATESE [1]
di Emidio Civitillo
Cenni di storia
Non tutti gli studiosi sono concordi sull’origine e sulla derivazione (etimologia) della parola “Pietraroja”. La tesi più accreditata è quella secondo la quale tale nome deriverebbe dal colore rosa del marmo (pietra rosa, da cui “Pietraroja”) che si trova sul costone di Sud/Est del “Palumbaro”. E non nella località “Fucina”, come erroneamente è stato scritto tante volte. La località “Fucina” è situata ad Est del centro abitato di “Pietraroja”, al di sotto della strada che porta a Morcone, mentre il “Palumbaro”, che è la parte orientale del Monte Mutria (1.823 metri sul livello del mare), si trova a Nord, sulla destra della strada panoramica Sud-Matese che porta a Bocca della Selva. Dalla strada, guardando verso l’alto, si può addirittura vedere il luogo dove una volta furono estratti alcuni blocchi del marmo rosa, che furono utilizzati, tra l’altro, per la costruzione degli altari dell’attuale chiesa dell’Assunta. Il colore rosa del marmo di “Pietraroja” è quasi uguale a quello della pietra delle cave di Vitulano.
Non si continuò l’estrazione del marmo per le difficoltà, all’epoca, di raggiungere il luogo: lontano dalla strada, con forte dislivello rispetto ad essa e su un costone piuttosto ripido ed impervio. Successivamente furono anche posti vincoli di difesa paesistico-ambientale e il discorso di estrarre il marmo fu definitivamente chiuso.
Tornando alla località “Fucina”, in essa non esiste alcuna pietra di colore rosa, ma solo modesti giacimenti di scisti bituminosi di colore scuro, talvolta utilizzati come combustibile, scavandone piccole quantità con un piccone, come ricorda Domenico Falcigno, sindaco, a tempo pieno e molto impegnato, del suo amato paesello dal 1970 al 1985, con numerose ed importanti opere realizzate (strade comunali e rurali, elettrodotti, acquedotti, il moderno palazzo del municipio, ecc.).
In base a quanto ha lasciato scritto lo storico Strabone (64 a.C. – 20 d.C.), invece, il nome “Pietraroja” deriverebbe dal latino “petra ruens” (pietra che scorre). Forse in relazione ad alcuni movimenti franosi, come quelli che anche oggi interessano certe zone di “Pietraroja”. Questa derivazione del nome “Pietraroja” trova d’accordo anche il sottoscritto. E ciò per una serie di considerazioni, non ultima quella basata sul fatto che, pronunciando il nome “Pietraroja” nel dialetto dei comuni della zona, si ottiene un’espressione che richiama molto quella latina (“petra ruens”).
Nei testi medioevali il nome “Pietraroja” viene riportato con qualche variazione: Petraroyce, Petraroja.
“Pietraroja” è sicuramente un paese antichissimo. Sulle sue origini si è scritto che esso deriverebbe da un piccolo villaggio sannitico di oltre 2.000 anni fa, fondato in seguito alla distruzione dell’antica città di “Telesia”, intorno all’85 a.C., da parte del console romano Lucio Cornelio Silla, che volle punire non solo “Telesia”, ma anche altri centri sanniti, che avevano appoggiato Caio Mario proprio contro Silla nella guerra per la conquista del potere di Roma. Parte dei telesini, scampati alla morte, cercarono rifugio verso Nord, sui monti del Matese, dove fondarono il piccolo villaggio (la prima “Pietraroja”) nella zona attualmente denominata “Case Vecchie”, lungo il bosco del “Feo”, che è una zona piuttosto distante, e in basso, dall’attuale centro abitato.
Distrutto il villaggio della località “Case Vecchie”, lungo il bosco del “Feo”, da una calamità naturale (non si sa bene se terremoto o alluvione), ne fu costruito un altro (la seconda “Pietraroja”) molto più in alto e parecchio distante dal “Feo”, tra le località “S. Anna” e “Castello”, dove si trova parte dell’attuale centro abitato.
Dopo che anche quest’ultimo villaggio fu distrutto, secondo la versione più attendibile dal terremoto dell’11 ottobre 1125, il paese (la terza “Pietraroja”) venne ricostruito poco più a monte, nella zona detta “Terra Vecchia”, dove attualmente si trova il piccolo e grazioso (è proprio così) cimitero.
Per oltre cinque secoli qui rimase il centro abitato, che, come i centri abitati degli altri paesi della zona (tranne Cusano Mutri per la sua particolare formazione geologica), venne raso al suolo dal terribile terremoto del 5 giugno 1688, “…ad hore 21…, …ch’essendosi cantate le Vespere…”, con 400 morti, come da descrizione manoscritta dell’allora arciprete don Liberatore Manzella, in un vecchio registro dei matrimoni redatto dallo stesso arciprete.
Agli inizi del 1700 i superstiti del terremoto iniziarono a costruire la quarta “Pietraroja”, dov’è attualmente. E fu proprio il conte di Cerreto, Marzio Carafa, di cui “Pietraroja” era feudo, ad influenzarne la pianta, che è piuttosto squadrata e richiama (un po’ alla lontana, s’intende) la bella pianta di Cerreto Sannita, voluta sempre dal conte Marzio Carafa.
Nella signoria di “Pietraroja” si successero, per 4 secoli, i cavalieri normanni della casa Sanframondo. Nel 1400 “Pietraroja” passò ai Marzano, conti di Alife, nel 1480 passò ad Onorato Gaetani, signore di Piedimonte, quindi ai Carafa, conti di Cerreto, ai quali appartenne fino al 1806.
La grotta delle fate
Tra i cenni di storia di “Pietraroja” va menzionato, anche se brevemente per ragioni di spazio, il fenomeno del brigantaggio postunitario (1860 – 1870), che interessò tutto il Meridione d’Italia, non escluso il Matese.
Il “popolo basso” (specialmente pastori, contadini, braccianti e artigiani) fornì un concreto appoggio alle bande partigiane di Francesco Secondo di Borbone, nella speranza di conquistare condizioni di vita più tollerabili di quelle imposte (soprattutto la pesante e insopportabile pressione fiscale) dai “piemontesi” (Cavour, Vittorio Emanuele II, ……), ai quali Garibaldi, con la sua “Spedizione dei Mille”, aveva regalato un bel pezzo d’Italia. A “Pietraroja” e nelle zone limitrofe i “briganti” (soldati del disciolto esercito borbonico, pastori, braccianti, ecc. datisi alla macchia) trovarono luoghi ideali per rifugiarsi e dai quali partire per le loro scorrerie e azioni di rivolta.
Come si sa, essi (ma non i loro registi più o meno occulti) furono perseguitati, battuti e spesso uccisi senza tante formalità. Di ciò ancora oggi a “Pietraroja” si racconta, e c’è un episodio del quale sanno ancora un po’ tutti: l’episodio della “Grotta delle Fate”, del quale hanno scritto anche gli storici.
La “Grotta delle Fate”, o “Grotta dei Briganti”, si trova, ben nascosta e inaccessibile, alle spalle di “Pietraroja”, verso Nord/Ovest, sul versante destro (spalle alla sorgente del Titerno) del profondo “canyon” a monte di “Fontana Stritto”. Alla “Grotta” i briganti accedevano scalando la parete sottostante con ramponi e corde.
Il 15 dicembre 1863 numerosi soldati e guardie nazionali, agli ordini del generale Pallavicini, che era coadiuvato dal coraggioso capitano Diaz, dopo 6 giorni di assedio, durante i quali fu ucciso il carabiniere Giacomo Mennone, piuttosto incauto e spavaldo nell’attaccare, catturarono sette briganti: Angelo Varrone (48 anni, capo banda), Vincenzo e Felice Cassella (padre e figlio di 48 e 22 anni) e Raffaele Pascale (39 anni), tutti di Cusano Mutri, oltre a Francesco Paolo Amato di “Pietraroja”, Giovanni Barletta di San Marco dei Cavoti e Arcangelo Lancieri di Salerno. I primi quattro, portati a “Pietraroja”, con immediato e rapido consiglio di guerra vennero subito fucilati alla schiena sull’Aia della Corte, un piccolo spiazzo alle spalle dell’attuale municipio: altro che promessa di avere salva la vita e di riduzione della pena, in caso di resa. Gli ordini “piemontesi”, nella maggior parte dei casi, non consentivano di andare troppo per il sottile, e le promesse di clemenza con regolari processi e di non essere passati per le armi, in caso di resa o di “ravvedimento”, erano solo premeditati e ingannevoli trucchi.
Anche Francesco Paolo Amato venne poi ucciso e il fratello Nicola, che si era prestato a tradirlo, indicando la “Grotta” dove si nascondeva Francesco Paolo assieme agli altri briganti, con la promessa di ricevere 100 piastre in denaro e che a Francesco Paolo sarebbe stata fatta salva la vita, non ricevette nemmeno il denaro e, soprattutto per la fine del fratello, uscì di senno. Ancora oggi si parla di “Cola gliu mattu”, che si ritirò a vivere di stenti in una misera capanna pagliaresca in località Potete, dove un mattino fu trovato morto.
Le bellezze architettoniche e i monumenti
All’ingresso del paese, davanti al municipio, c’è “Piazza Vittoria”, luogo di ritrovo dei pietrarojesi. Sul lato ovest della piazza una volta c’era “gliu puzzu”, al quale gli abitanti attingevano l’acqua prima che venisse realizzato l’acquedotto, che, per il centro abitato, risale al 1928.
Salendo per la via principale all’interno del paese, si giunge a “Piazza S. Nicola”, dove si trova la chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta in Cielo, di epoca romanica e di chiara derivazione pugliese, realizzata nel 1695 (data anche scolpita sull’architrave del portale) ricostruendo l’antica chiesa di S. Paolo, che si trovava fuori le mura della terza “Pietraroja” e che fu anch’essa distrutta dal terremoto del 1688. Prima del disastroso terremoto la Chiesa Madre dell’Assunta, con tre navate e 12 archi, si trovava sul cocuzzolo del monte Sant’Angelillo, dove si trova l’attuale cimitero.
Terremoto che l’arciprete don Liberatore Manzella così descrisse: “….. il terremoto che fu a 5 giugno 1688 ad hore 21 tanto forte, et terribile, che buttò per terra tutta la Terra affatto, et la Chiesa in tempo ch’essendosi cantate le Vespere si cantava la Compieta parata con l’assistenti, …..et si era arrivato al psal. “In te Domine speravi, non confundar in aeternum”, et gli altri sacerdoti… cantavano dietro il Choro, ove fuggimmo anche noi, ma con difficoltà grande per l’agitazione del terremoto, ch’io a mala pena entratovi mi fermai dietro la Custodia: per la Chiesa altro non si sentia, che rumore et sono di Campane, et campanelli, che sonavano da per se, commossi dal terremoto; et tutta la Chiesa, hor chinarsi verso Oriente, hor Verso Occidente con strepito di travi, et aprirsi et serrarsi le lamie, di maniera che mostrava il Cielo all’apriture: finalmente cascò quella sì bella, et magnifica Chiesa fatta con tante lamie, et pilastri tutti a cantoni (blocchi di pietra) lavorati, …..cascò il campanile con quattro campane, cascò parimenti l’horologio et tutti quelli poveretti che si trovavano dentro la Chiesa furono sepolti dalla ruina di essa Chiesa, de’ quali pochissimi furono scavati vivi. Restò solo in piedi il Choro fatto a lamia, quale benché due volte si aprì, et mostrò a noi l’aree, nulladimeno poi miracolosamente si serrò…. Dentro il Choro scampammo la vita tutti noi sacerdoti.
Quando uscimmo da esso vedemmo la Chiesa tutta spianata et uscendo fuori di essa si vidde tutta la Terra ridotta in una maceria di pietre, che nessuno di noi potea sapere dov’era stata la sua casa. Se sentiano stridi et lamenti di assaissimi poveretti, che stavano sepolti sotto le ruine di esse case. …..”
Sull’antico portale dell’attuale chiesa dell’Assunta sono scolpiti un leone, una leonessa, un orso e un’orsa che allatta i cuccioli, e sia i leoni che gli orsi sono incatenati da una catena di pietra a forma di catena di ferro, che si estende lungo tutto il portale (in verità la catena di pietra somiglia ad una grossa fune). Alla base di ognuno dei due stipiti della porta di destra (guardando la facciata) delle attuali tre porte della chiesa, è scolpito, a sinistra, “fu la peste 1656” e, a destra, “fu la carestia 1648”.
Il portale dell’attuale chiesa dell’Assunta è lo stesso che aveva la chiesa di S. Paolo caduta col terremoto: non si tratta, pertanto, del portale che aveva la Chiesa Madre dell’Assunta sul cocuzzolo del Monte Sant’Angelillo, prima che il terremoto la distruggesse. A dimostrazione di ciò, riportiamo quello che scrisse don Liberatore Manzella nel lontano 1684, quattro anni prima del terremoto: “La Chiesa di S. Paolo extra muros ha due porte, cioè una revolta all’oriente estivo. Quale è la porta grande fatta di pietre lavorate a cantoni (blocchi), in essa vi sono scolpiti di pietra alla parte di sopra uno leone et una leonessa; il leone dalla parte destra nell’uscire, et la leonessa dalla parte sinistra, et nella parte inferiore vi sono un orso dalla detta parte destra et dalla parte sinistra un’orsa con loro sacchi (cuccioli), che lattano, et tanto li leoni, quanto l’orsi vengono incatenati da una catena di pietra scolpita a guisa di catena di ferro. Alla parte di sopra vi è l’arco trave di pietra, sono in mezzo di esso arco trave due statue di pietra rossa, una di S. Pietro et l’altra di S. Paulo Apostoli, et in mezzo di essi si legge un numero, che dice ottocento, forse quando fu edificata detta Chiesa correva l’anno ottocento del Signore. Sopra detto arco vi è l’agnello con la crocetta sopra l’homeri”.
Una menzione particolare merita la chiesetta di montagna dedicata a Sant’Anna, riaperta al culto il 26 luglio (giorno di Sant’Anna) del 1985 con l’intervento del vescovo Felice Leonardo, ora in pensione. La chiesetta, veramente bella sia dentro che fuori, si trova isolata, a monte del centro abitato, in uno scenario naturale d’incomparabile bellezza. La chiesetta è stata realizzata ricostruendo l’antichissima cappella, sempre dedicata a Sant’Anna, risalente ai tempi della seconda “Pietraroja”.
Degne di nota sono anche due chiesette di campagna: una in contrada Mastramici, dedicata a S. Francesco e l’altra in contrada Cerquelle, detta cappella dei Sibrella, in onore di S. Rocco.
Meritano di essere menzionati anche i resti di un monastero benedettino dell’undicesimo secolo, intitolato a Santa Croce, sulla provinciale Pietraroja – Sepino, proprio sul valico di Santa Crocella (1.219 metri s/l/m), nei pressi dell’edicoletta, posta nell’ottobre 1960, con croce in pietra e lapide, sulla quale è scritto: “Crux parva ubi monasterium clarum” (piccola croce dove esisteva un illustre monastero).
Il valico di Santa Crocella è una sella montana di grande suggestione paesaggistica, tra il Monte Tre Confini (1.419 metri s/l/m) e il Monte Moschiaturo, detto anche “Defenza” (1.470 metri s/l/m). Il valico si trova proprio sulla linea di confine tra i Comuni di Pietraroja e Sepino, tra le Province di Benevento e Campobasso e tra le Regioni Campania e Molise.
Il monastero di Santa Crocella fu portato alla ribalta della cronaca alcuni anni fa, su “Molise Oggi”, da Vito Antonio Maturo, inarrendevole ricercatore, il quale ha anche fatto una ricerca sulla cappella dell’Addolorata in contrada “Case Varrone”, risalente al 1823.
Il parco geopaleontologico
La presenza a “Pietraroja”, a pochi metri dal centro abitato, un po’ più a monte, di rari resti fossili di animali e vegetali anche di circa 200 milioni di anni fa, contribuisce a rendere ancora più attraente, se non addirittura affascinante, un ambiente naturale di montagna tutto da vedere.
I calcari fossiliferi di “Pietraroja” si formarono nell’Era Mesozoica, articolata nei suoi tre periodi: Triassico, Giurassico (da cui il famoso film sui dinosauri, “Jurassic Park”) e Cretaceo, in un ambiente di tipo lagunare, con acque calde e poco profonde, molto calme e con saltuarie comunicazioni con il mare aperto. Gli animali, uccisi da gas tossici sprigionati da flore batteriche, vennero ricoperti da sedimento (fine e vario materiale che nell’acqua si depositava sul fondo) e subirono, in tempi ovviamente molto lunghi, un lento processo di pietrificazione, assieme allo stesso sedimento, nel quale rimasero imprigionati.
Tra i tanti resti pietrificati di animali, sono stati ritrovati rettili fino a 30 centimetri, antenati dei “Rincocefali”, che attualmente vivono nelle famose isole “Galapagos”. Nel 1982 fu ritrovato anche un coccodrillo, ora in fase di restauro presso l’Università di Torino.
Sono stati rinvenuti denti di 15 centimetri appartenuti ad un antenato dello squalo azzurro lungo 10 metri. E nel 1993 è stato ritrovato un cucciolo integrale di dinosauro (il celeberrimo Ciro: Scipionyx samniticus), preso “temporaneamente” in consegna dal Museo Archeologico di Napoli (o più esattamente dalla Soprintendenza archeologica di Salerno, dove viene custodito). In tutto il mondo ne sono stati ritrovati 3 o 4 soltanto. La notizia, apparsa su tutta la stampa nazionale e internazionale, ha avuto vasta eco, facendo aumentare notevolmente l’interesse per il Parco.
Purtroppo i resti fossiliferi rimasti a “Pietraroja” sono pochi, perché sono stati quasi tutti dispersi in Italia (Torino, Verona, Napoli) e all’estero (Berlino, Londra, Parigi), dove vengono restaurati e studiati.
L’attuazione del progetto di realizzazione di aree attrezzate per lo sviluppo e la valorizzazione del “Parco Geopaleontologico” sta incontrando notevoli difficoltà di carattere amministrativo e burocratico. Si prevedono, comunque, e prima o poi quasi certamente si faranno, lavori di illuminazione, recinzione ed ulteriori scavi (i fossili finora rinvenuti sono solo una piccolissima parte di quelli che ancora possono essere portati alla luce), oltre alla tanto attesa costruzione di un museo locale.
Le attività economiche
“Pietraroja”, il tetto della Provincia di Benevento con i suoi 832 metri sul livello del mare, si estende per circa 3.560 ettari, con un’altimetria che va dai 450 metri in località “Cesolla”, vicino al torrente “Torbido”, tra contrada “Pezzapiana” e contrada “Potete”, ai 1.780 metri sulla cresta del Monte Mutria.
La popolazione nel 1532 era di 56 fuochi, che nel 1648 aumentarono a 119, per poi scendere a 69 nel 1669, a causa della mortalità dovuta alla peste del 1656. Nel 1791 gli abitanti aumentarono a 1.673 e divennero 2.135 nel 1861. Nel 1958 furono 1.231, in continua diminuzione, anche dopo quest’ultima data, a causa dell’emigrazione. Negli ultimi anni il numero degli abitanti si è stabilizzato intorno alle 700 unità.
L’economia è essenzialmente agrario-pastorale. La coltivazione della terra è oggi molto ridotta, ma fino a due decenni fa, nonostante fosse poco redditizia, l’agricoltura veniva praticata un po’ ovunque, dalle quote più basse fino ad oltre i mille metri di altitudine, con coltivazioni soprattutto di frumento, patate, legumi e granoturco.
L’allevamento, soprattutto di ovini, è invece ancora importante per gli abitanti di “Pietraroja”. Ma si allevano anche cavalli e bovini. Questi ultimi sia allo stato brado che in stalla. Per cui è molto praticata la fienagione.
L’allevamento degli ovini è stato caratterizzato, fino ad alcuni decenni orsono, dal fenomeno della transumanza (che a “Pietraroja” chiamano “transumaziòn’”), quasi tutta verso la Puglia.
Decine di migliaia di pecore non potevano esse fatte svernare a “Pietraroja”, in stalla col fieno, o nelle immediate vicinanze, per cui venivano condotte nelle pianure pugliesi, prevalentemente all’altezza del Gargano. La partenza da “Pietraroja”, a gruppi di 5 o 6 mandrie di 200 – 300 pecore guidate dai pastori, avveniva tra l’ultima settimana di ottobre e San Martino (11 novembre) e l’arrivo in Puglia avveniva dopo circa 12 giorni, percorrendo un “tratturo” largo circa 60 passi.
Si aveva cura di far coincidere la partenza con la luna piena, per una migliore visibilità durante le ore notturne, anche se di notte le pecore, pur con la luna, si spostavano con grande difficoltà, al contrario di bovini e cavalli. Per cui di notte era necessario accamparsi sul “tratturo”, facendo stare le pecore in recinti di rete.
Il ritorno a “Pietraroja” avveniva dopo circa 7 mesi, entro il 13 giugno (S. Antonio).
Essendo patrono di “Pietraroja” S. Nicola, la festa patronale non si poteva celebrare il 6 dicembre (giorno di S. Nicola, previsto dal calendario), quando i numerosi pastori stavano in Puglia, per cui fu spostata alla domenica precedente il 24 giugno.
Il Papa Clemente XII° – racconta Domenico Falcigno – con decreto pontificio del 14 maggio 1732, proclamò S. Nicola di Bari protettore principale di “Pietraroja”, accogliendo la richiesta del Clero, che attribuì al Santo un fatto miracoloso verificatosi col catastrofico terremoto del 1688, che distrusse la terza “Pietraroja”, compresa la chiesa fuori le mura che era dedicata a S. Paolo, antico protettore.
L’economia pietrarojese è in crisi ancora più seria che altrove. La pastorizia e l’agricoltura vanno sempre più regredendo a causa delle vecchie logiche di conduzione, che devono essere necessariamente superate, se si vuole guardare con un po’ di ottimismo al futuro. Il turismo, poi, in cui vengono riposte grosse speranze di sviluppo, stenta a decollare, e quanto alla valorizzazione del “Parco Geopaleontologico”, se ne parla da tempo, ma finora niente di concreto.
Gli appuntamenti della tradizione
- Festa di S. Nicola, patrono, la domenica precedente il 24 giugno (S. Giovanni)
- Festa della Madonna del Carmelo (gliu Carmnu), il 16 luglio
- Festa di S. Anna, il 26 luglio
- Festa della Madonna dell’Assunta, il 15 agosto
- Festa di San Rocco (Pietraroja centro), il 16 agosto
- Festa di San Rocco (alla contrada Cerquelle), la domenica successiva al 16 agosto
- Festa degli Emigranti, stabilita, anno per anno, tra il 17 e il 20 agosto
- Festa di San Francesco (alla contrada Mastramici), il 4 ottobre
Ci sono, poi, ogni anno, sagre come quelle dell’agnello, del prosciutto e dei carrati, che sono dei tipici e ricercati maccheroni locali, fatti a mano con ingredienti e salse particolari, come il sugo di carne di “pecora vergine” (che non ha ancora iniziato la riproduzione), detta anche “ciavarra” o “chiuppaiola”.
[1] Pezzo realizzato ritoccando lievemente quello consegnato alla presidenza della Comunità Montana del Titerno e pubblicato (non interamente per ragioni di spazio), con foto a colori, sulla rivista “IL TITERNO” n. 3 del 1996.