Prefazione
[V] Se vi è ricerca positiva, la quale valga a provare che la mente dell’uomo è il prodotto di uno sviluppo, e non un fenomeno nuovo apparso ad un tratto sulla superficie della terra, è quella che ha inspirato l’egregio dott. De Blasio nella compilazione del libro che ho l’onore di presentare agli studiosi. L’antropologo, lo psicologo, il sociologo vi troveranno materia di riflessione, poiché da un argomento che a prima vista sembra di ristretto significato come quello della stregoneria e del malocchio si desumono illazioni importantissime sulla storia dell’anima umana.
[VI] L’evoluzione mentale umana è assai più lenta e stentata di quanto suppongano i filosofi e i moralisti che ancora partono dal preconcetto della fondamentale differenza fra l’animale e l’uomo, e che, per ispiegare il punto cui dopo tanti secoli è arrivata in pochissimi individui eletti la potenza intellettuale della nostra specie, non sanno trovare ipotesi migliore della improvvisa formazione di un’ « anima umana » e della sua immissione in un « corpo animale ». Il preconcetto, che pareva distrutto per sempre dai progressi delle scienze biologiche, antropologiche e psicologiche, ci ritorna in questo momento per opera dei neo-spiritualisti e dei dilettanti dell’evoluzionismo; e ci ritorna rinfrescato dalla corrente mistica che ci aleggia d’attorno.
Sopravvive in mezzo agli splendori della civiltà, in contrasto perenne cogli acquisti meravigliosi del sapere, una folla di credenza [VII] primitive, che l’umanità porta in sé come retaggio di una lontanissima fase di inferiorità mentale, quando di ben poco si era essa allontanata dalle specie affini e si formava il suo massimo dei caratteri distintivi, il linguaggio.
Le paure incoscienti di fronte agli arcani della legge di causalità, che la mente dell’uomo primitivo, del selvaggio e del bambino non sa vedere né nel mondo esterno né in quello dei proprii sogni, appartengono anche alla psicologia animale. È assurdo pretendere che la percezione dell’ignoto cominci nell’uomo: si dovrebbe dire, anzi, che essa finisce in lui, sostituita dalla percezione del vincolo causale fra le sensazioni, e quindi fra le cose. Tutti gli animali mostrano terrore di ciò che non comprendono o di cui loro sfugge la causa; e la sola differenza tra essi e noi è questa, che al distacco fra i fenomeni onde è colpita la nostra mente noi diamo un nome.
Il misticismo e l’occultismo degli animaliVIII] rimangono confinati nella pura sfera percettiva: i nostri si spingono, pur troppo, nella intellettiva, e là assumono la forma e la importanza di attività psichiche enormemente sviluppate e all’apparenza nuove nell’evoluzione mentale.
Ma errava il de Quatrefages quando poneva la religiosità ed il senso morale come proprietà caratteristiche aggiunte alle fisiche, alle vitali ed alle animali per dare origine al suo presunto « regno umano ».
Bisognava, anzi tutto, dare la definizione della religiosità; e a meno di voler correre dietro ai fantastici concetti che di essa si son fatti i mitografi metafisici dello stampo di Max Müller, il quale vi scorge una non si sa bene se facoltà o funzione di « affermare l’Infinito », o anche del genere di Réville, il quale vi trova invece il sentimento del legame con lo « Spirito dominatore », noi non possiamo dirla una forza nuova nel mondo terrestre. Se la definiamo con criterio positivo come il sentimento della nostra dipen- [IX] denza dalle forze che ci circondano, di cui siamo il prodotto o da cui siamo dominati (forze che si sintetizzano in un concetto di unità solo in una fase avanzata di sviluppo mentale), siamo costretti di concedere agli esseri inferiori i germi, e più che i germi di questo sentimento e della conseguente rappresentazione di un rapporto fra l’essere stesso senziente e i fenomeni esterni. Il Van Ende, molti anni or sono, aveva cominciata una lunga dimostrazione delle credenze esistenti nella psiche animale: quella dimostrazione non l’ha finita; però le parti che ne han vista la luce bastano a convincere che la religiosità non è propria esclusivamente della psiche umana, ma approfondì le sue radici in piena animalità.
Le superstizioni non sono la religione, né tutte hanno rapporti con i sentimenti e concetti intorno agli esseri ed alle cose superiori [X] all’uomo. Ma una gran parte degli errori popolari costituisce un elemento primordiale delle diverse religioni; una parte si è in esse così compenetrata, da non potersi intendere certe credenze religiose senza qualche originaria superstizione che ne fu il primo nucleo ed ora la mantiene; altre derivano da ingenue interpretazioni dei dogmi e dei riti;ed altre ancora ci mostrano, per così dire, in evoluzione possibile forme nuove o future di religione, ad esempio lo spiritismo. Sostanzialmente però ogni superstizione è una erronea credenza riguardo alla legge di causalità dei fenomeni naturali, in quanto questi dall’esterno possano agire su di noi o in quanto noi possiamo esercitare su di essi, coi nostri pensieri e con la nostra volontà, un’azione direttiva o preservatrice.
Tutte le superstizioni si dividono, dunque, facilmente in quelle relative al potere delle cose e delle altre persone sul soggetto (potere che è temuto o preveduto, e che si vuole propiziare); ed quelle relative alla reazio- [XI] ne del soggetto medesimo sulle cose e sugli altri.
Il fascino, il malocchio, l’incantesimo, la magia, la fattucchieria, la stregoneria, il vaticinio, la propiziazione, la cartomanzia, e tutte le consimili forme della mantica costituiscono un cumulo enorme di semplici varianti dei due accennati rapporti. Ma di più, esse non danno origine a credenze e a pratiche essenzialmente diverse presso i diversi popoli, attraverso i tempi, nei differenti gradi di civiltà o, meglio, di barbarie e semibarbarie (la vera civiltà è assai lontana e ideale!!).
Una desolante uniformità regna anche in questo campo rozzo e sterposo dell’umano pensiero. Ovunque si porti l’indagine demopsicologia si trovane le medesime illusioni, i medesimi errori logici, le medesime paure irreflesse, le medesime identiche ragionevolezze. Anche oggi l’Australiano, il Boscimano, il Vedda di Ceylan, il Botocudo, l’Akkà del centro dell’Africa, questi residui o, se si vuole, questi rappresentanti dell’uomo prei- [XII] storico, danno la mano nelle loro superstizioni all’abitante di Parigi, di Londra, di Milano, di Nuova York, i quali pur sono o si immaginano di essere i rappresentanti della più avanzata civiltà moderna. Ed attraverso ai tempi il troglodite della Maddalena, il guerriero dei Dolmen, il satrapo di Elaiopoli, il patrizio e il plebeo di Roma, l’Inca del Perù, il cittadino dell’Atene di Pericle, o quello della Firenze dei Medici, fino al gaudente delle grandi moderne metropoli, sedi dei più raffinati sentimenti, si trasmettono la fede nelle medesime manovre e pratiche contro i pericoli che li minacciano dagli arcani dell’invisibile e dell’intangibile.
I Beneventani, che vengono studiati dal De Blasio nel suo volume, hanno fama di essere i più superstiziosi, non che degli Italiani, di tutti gli Europei. Forse ciò è possibile, perché i meridionali posseggono una [XIII] fervida fantasia, hanno in genere scarsa coltura, e conservano molti dei caratteri arcaici fisici e morali della loro razza; ma può anch’essere che le loro superstizioni ci appajano più numerose perché ne è più vivace la manifestazione.
Sostanzialmente il Parigino dei salons e boulevards, che vede dappertutto lo spione prussiano, o che crede nell’azione propizia del gobbetto d’oro posto fra i ciondoli del suo orologio, è un superstizioso poco dissimile dal Beneventano del secolo XVII, che non esciva di casa alla notte per timore di veder passare le streghe recantisi allo storico noce, o dal prete rurale di Valle di Pompei, che nelle convulsioni di una povera isterica vede ancora oggi, dopo tanti progressi della scienza, l’effetto terrifico di una fattura. Fra le credenze e le paure di questi individui posti ad un grado così lontano di civiltà (Parigi non è forse il « cervello del mondo »?) lo studioso di fenomeni psichici e sociali scorge agevolmente il legame, anzi la più stretta af- [XIV] finità. L’emozione fondamentale ne è la medesima, cioè la paura davanti all’ignoto od all’insolito; ora, in questi fenomeni di psicologia popolare ciò che interessa è il lato affettivo, laddove l’idea che accompagna la emozione, diversificando a seconda dell’ambiente e della cultura individuale, diventa un puro accessorio.
Il libro del De Blasio rimette in luce un altro ben noto carattere delle superstizioni: il loro associarsi frequente alle aberrazioni e malattie mentali. Illustri alienisti (parlo dei veri cultori della Psichiatria, non dei molti dilettanti che infestano, ora, il nobile e difficile dominio di questa disciplina) hanno già trattato, possiamo anzi dire esaurito, l’argomento. Pure è utile ogni nuova ricerca sui rapporti fra demopsicologia e psicopatologia anche se compiuta su di un territorio ristretto su di una classe particolare della po- [XV] polazione. Il De Blasio arreca qui un ottimo contributo alla spiegazione delle credenze popolari e quindi anche dei miti, avanzata dalla scuola positiva o antropologica, in opposizione a quella che viene tuttora sostenuta dai seguaci del classicismo. Mi è sembrato gradito lo scorgere che le dottrine, al trionfo delle quali ho dedicata l’attività degli anni miei migliori, raccolgono nuove conferme da parte di giovani come lui valenti e studiosi.
Genova, I luglio 1899
Prof. Enrico Morselli
[XVII] Proemio
Sono molto lontani dal vero coloro i quali credono che la Stregoneria fosse stata introdotta in queste nostre Province da’ Longobardi, che le conquistarono e vi fondarono il Ducato di Benevento, che durò per più di tre secoli, cioè dal 764 al 1077.
La Stregoneria, e con essa la Magia, gli Oracoli, gl’Incantesimi e i Vaticini, che le fan da corona, possono dirsi altrettanto antichi quanto l’uomo stesso, perciocché ne rimangono tali e tanti ricordi nelle più vetuste memorie della nostra stirpe, che ci permettono di considerarli come un retaggio di quelle antichissime popolazioni, che si potrebbero quasi dire preistoriche. Buon numero di quelle credenze è oggi scomparso fra i popoli civili; ma ne rimangono pur tuttavia alcune, le quali, se tenute come supersti- [XVIII] ziose e vane dalla gente colta, non riscuotono meno onori e fede presso i volghi ignoranti delle nostre popolazioni; e però non parmi inutile il ricordare quanta efficacia quelle credenze avessero avuto nell’alta antichità, e quanta nei secoli che da quella età si avvicinano man mano fino a noi.
E per dirne alcun che, per quanto riguarda i tempi più remoti, ricorderò l’importanza che s’ebbero i Vati di Calcante[1], Nerèo[2], Cassandra[3], che predissero la distruzione di Troja e la caduta del regno di Priamo; ricorderò Tiresia, che, non mai creduto, vaticinava a Edippo il suo miserando destino[4], e il Titano Prometeo, [XIX] che, incatenato sulla vetta del Caucaso, annunziava ad Io, convertita in vacca da Giove, il ritorno al suo primiero stato ed il suo lieto avvenire[5]; ricorderò ancora le Sacerdotesse che presedevano ai santuari di Lesbo[6], di Delfo[7], di Dodona[8], e vi profferivano oracoli venerati per tutta l’Ellade e fuori; la Sibilla Cumana, dalla cui bocca raccoglieva Enea gli auguri che gli assegnavano il possesso d’Italia[9], e per ultimo ricorderò Carmenta, che presagiva, fin da’ suoi tempi, le glorie e la grandezza di Roma[10].
Ma come a poco a poco scemava nelle moltitudini la fede ne’ Veggenti e negli Oracoli, così cresceva invece e si assodava sempreppiù quella ne’ Maghi e nelle Streghe, che con sortilegi, con incanti, con filtri compivano opere nefande.Innanzi a tutti si ricorda Medea, che con arti magiche aiutò Giasone nella conquista del Vello d’Oro, e gli fu guida a ritornare in Tracia col ricco bottino e con a lato l’amata donzella, che gli fu poi cagione di dolori e di morte[11].
Calipso[12] e Circe[13], famose nell’arte, fecero anch’esse sentire all’astuto Ulisse la possa dei loro incantesimi, ritenendolo per più anni lontano dalla sua casta Penelope, e dalla sua cara Itaca. Sparsasi di poi quell’arte per la Grecia e per l’Italia, molti, e singolarmente le donne, si diedero a praticarla. Teocrito, nel suo idillio, L’incantatrice, ci parla di una di quelle maghe, che, abbandonata dall’amante, tenta richiamarlo a sé con tutti gl’incanti di cui essa dispone[14].
Così parimenti Orazio, che nelle sue Odi a Canidia ci fa palesi le arti onde volevasi la Maga nei suoi sortilegi[15]; e Virgilio altresì, che ci descrisse gl’incantesimi del pastore Alfesibeo per richiamar Dafni, l’infido, ai suoi primi amori[16]. E per vero, tanto salda presso gli antichi era la credenza nei Maghi e nelle Streghe, che si credeva poter essi a lor talento trar giuù dal cielo la Luna[17], evocare i Mani[18], incantare i serpenti, ed altrettali cose[19]. « Dopo queste prodezze, scrive il Leopardi, il coprire il cielo di nubi, il far muggire i tuoni senza consenso di Giove, e biancheggiare la terra di neve nel cuor dell’estate, il destare i morti, l’eccitare il mare a tempesta dovevano esser ed erano infatti un giuoco per quei possenti incantatori[20] ».Fra i tanti Maghi e Streghe in maggior conto erano tenuti quei di Tessaglia, la rinomanza dei quali era giunta a tale, che alla stessa Magia si dava il nome di Arte Tessalica, onde Orazio ebbe a dire, per celia, ad un suo amico:
Quae saga, quis te solvere thessalis
Magus venenis, quis poterit Deus?[21]
E per dare maggior fondamento di vero a quella credenza si asseriva che, siccome la Tessaglia abbonda di veleni e di erbe delle quali si servono i Maghi, questi vi dovevano esser in gran numero, tra i quali contatasi quel famoso Erittonio del quale parla Lucano nel IV della sua Farsalia[22].
Riputazione non minore nelle arti magiche si ebbero anche i Marsi, i quali scongiuravano ed ammansavano anch’essi i serpenti col canto, e le velenose ferite risanavano con la virtù delle erbe di cui sono feraci i loro monti; ed è ben noto come Virgilio descrivesse l’incantatrice e sovrumana possa del fortissimo Umbrone. Le loro arti magiche si dicevano un dono della sorella di Circe, Angizia, la quale, venuta dalla Colchide nei luoghi vicini al Fucino, mostrò ed insegnò a quegli abitanti come si dovesse resistere a’ morbi e domare i veleni[23], e perciò i Marsi le rendevano un culto divino in un tempio circondato da una selva sacra, della quale rimangono tuttora le memorie e il nome nell’odierno villaggio di Luco[24].
Coloro poi che accreditarono sempreppiù in Roma le pratiche della Magia furono gli Etruschi. Gli stessi deserti dell’Appennino, ov’erasi nascosto, secondo la tradizione, l’Augure Arante proscritto dall’Etruria, fatta schiava e spopolata, rimasero la sede di quei Maghi che il Senato chiamava poscia nella Roma degli Imperatori, ogni qualvolta una cometa, un’ecclissi, una inondazione, o la nascita di un vitello con otto piedi destavano lo sgomento nella popolazione.
Questi stessi deserti dell’Appennino, nel secolo XIV, nascondevano ancora il temuto Negromante.
Che ne’ monti di Luni, dove ronca
Lo Carrarese di sotto alberga,
Ebbe tra bianchi marmi la spelonca
Per sua dimora, onde a guardar le stelle
E ‘l mar non gli era la veduta tronca[25].
Altra ancor più strana leggenda che riscuoteva altresì, molta fede presso gli antichi era quella, che i Maghi potessero cangiare gli uomini in lupi, come Circe aveva mutato in porci i compagni di Ulisse. È Virgilio che ce lo dice nella VIII delle sue Egloghe, nella quale fa raccontare da Alfesibe la potenza fascinatrice del potentissimo Mago Meride.
Has herbas, atque haec Ponto mihi lecta venena
Ipse dedit Moeris; nascuntur plurima Ponto.
His ego saepe lupum fieri, et se condere silvis
Moerin, saepe animas imis excire sepulcris,
Aque satas alio vidi traducere messes[26].
[XXVI] Uno dei racconti classici intorno al trasformarsi degli uomini in lupo lo troviamo in Petronio, il quale, parlando della trasmutazione di un versipellis, dice che, essendo stato ferito un lupo, l’uomo che era nascosto sotto quelle spoglie, ritornato nel suo primo stato, presentava la stessa ferita che gli era stata inferta sotto la forma di lupo[27]. A’ tempi di S. Agostino (354-430) vi erano Maghi, i quali persuadevano i gonzi che con certe erbe potevano trasformarli in lupi, e quindi ritornarli a lor grado nella pristina loro condizione[28].
[XXVI] Cotesta fiaba è una di quelle che abbiano avuto, in antico tempo, maggior credito presso gli Slavi, la quale da’ Neuri, di cui parla Erodono nel VI delle sue storie, che si cangiavano in ogni anno in lupi, si è protratta fino a’ Livoniani odierni, i quali credono, che i loro maghi s’immergano, in ciascun anno in un fiume per essere trasformati in lupi, e quindi per dodici giorni vivere sotto quelle spoglie[29]. La superstizione slava, sviluppando ancor più l’idea, aggiunge che i lupo, che sogliono talvolta, nell’inverno, addentare gli uomini, altro non sieno che Wilkolak, o uomini stregati sotto l’aspetto di lupi[30].
La credenza medesima perdura tuttora presso le rozze popolazioni della Germania, dove non bisogna mai pronunziare, nel mese di dicembre, il nome di lupo, perché si potrebbe esserne divorati[31]; perdura anche in Iscozia, dove, non essendovi lupi, vi si sostituiscono altri animali; e fra le bizzarre leggende di quel paese, si racconta che a Thurso taluni maghi avevano, sotto forma di gatti, tormentato per tanto tempo un brav’uomo, [XXVIII] il quale, stanco finalmente di tante importunità, una notte li mise in fuga, tagliando financo ad uno di essi, il più pigro, una gamba; ma quale non fu la sua sorpresa quando s’avvide che quella gamba era una gamba di donna, e l’indomani scoprì che la vecchia strega, sua albergatrice, aveva una gamba di meno![32]
Altra leggenda non meno fantastica, la quale ebbe in antico, e più ancora ne’ tempi di mezzo, gran favore presso le moltitudini, era quella della esistenza di esseri soprannaturali, sollazzevoli, gioviali, bizzarri, che si chiamavano Trolli, Folletti, Farfarelli, i quali vagavano nell’aria e penetravano a lor piacere, di notte, nelle case, destandovi spavento e facendovi gran chiasso, ora con bussi e picchi, ora mettendo tutto a soqquadro. Erano maghi ed incantatori per eccellenza. Sapevano trasformarsi in varie fogge; avevano in custodia i tesori nascosti, e li rivelavano a chi avesse saputo meritarli[33]. [XXIX] Di queste favole, che anche presso di noi, ebbero molto credito, rimane ancora qualche fievole memoria in alcuni luoghi dove le madri sogliono talvolta invocare i Folletti e i Farfarelli per ispauracchio dei loro indocili figliuoli[34].
A tali esseri strani e curiosi erano associate anch’esse le Fate, che, ora in forma di vaghe donzelle, ora di vecchie laide e schifose, s’ebbero una larga parte nelle credenze popolari dell’antichità e del medio-evo. Prosatori e poeti non isdegnarono raccontarne le gesta, ed Alcina, Melissa, Narcisa, Gabrina sono rimaste celebri ne’ canti dell’Ariosto, come la memoria di Armida vive e vivrà ne’ canti della Gerusalemme del Tasso.
Il loro credito è stato sì potente, che neppur oggi ne è scomparsa la memoria, ed anche al presente esse formano un tal quale ambiente nel quale sono educati i nostri bambini. In talune contrade delle Francia si crede anche oggidì che elle si radunino a conciliabolo di tanto in tanto presso i Dolmen ed altri monumenti megalitici, che dalle stesse Fate prendono il nome loro, come la Laza de la Fada, in Provenza, la Tioula de las Fadas, presso Saint Flour, in Alvernia, le Milloraines (giovanette) presso Langon, e via dicendo. Un Dolmen nella foresta di Paintpoints, in Brettagna, è conosciuto sotto il nome di Tomba di Merlino, perocché vuolsi che sotto quel Dolmen giaccia sepolto l’incantatore Merlino, che, fatto prigioniero d’amore dalla bella Viviana, vive ora congiunto con l’amata donna sotto le pietre del verde poggio di Broceliante[35]
Di altre creazioni più gioconde si abbelliva ancora il mondo ideale de’ popoli del settentrione, e furono le Niscie, le Ondine, le Iude, che, a somiglianza delle Naiadi, delle Driadi ed Amadriadi delle mitologie greca e romana, erano custodi delle sorgenti ed abitatrici delle foreste e delle rive dei fiumi. Erano fanciulle vaghissime, dai capelli d’oro, dall’aspetto incantevole, dall’accento melodioso, dallo sguardo affascinante, le quali avevano la virtù di trasformarsi in mille guise, sempre avvenenti, sempre seduttrici. Gli uomini, affascinati da’ loro sguardi, si annegavano e davano così la loro anima in balia dello spirito maligno. Benché di talune delle suaccennate credenze rimanga tuttora presso il popolo qualche lieve ricordanza, quasi come avanzo di un mondo che fu, il loro credito peraltro va dileguandosi di giorno in giorno, e il loro completo tramonto non pare molto lontano.
Non così per i maghi e per le streghe, che suscitano tuttora presso di noi, come ne’ secoli decorsi, ed ora con invocazioni, ora con incanti, ora con oroscopi, ora con arcane parole s’impongono alle menti del credulo volgo con formule misteriose e vivono lietamente alle spalle dei poveri gonzi.
Napoli 15 luglio 1899
Prof. G. Nicolucci
Note
[1] …Era Calcante
De’ veggenti il più saggio, a cui le cose
Eran conte che fur, sono e saranno,
Omero – Iliad. 1 v. 92-93 trad. Monti.
Conoscitore dei tre tempi (passato presente e futuro), al pari del Calcante Greco, era l’aryo vate Narada, il quale interrogato da Valsici, se fra gli uomini alcun ve ne fosse che potesse agguagliarsi ad un Dio, rispose esser quello Rama dotato di tutte le virtù che possono avvicinare l’uomo ad un essere Divino.
Ramayana, Lib. 1. cap. 1. Trad. Gorresio. ↑
[2] Su vaticinio di Nereo della rovina di Troja vedi Orazio – Ode 8 Lib. 1. ↑
[3] Tunc etiam fatis aperti Cassandra futuris
Ora, Dei jussu, non unquam credita Teucris.
Virgilio – Eneide II, v. 246-47. ↑
[4] Sofocle, nell’Edipo Re. ↑
[5] Eschilo – Prometeo incatenato. ↑
[6] A Lesbo era la testa di Orfeo che parlava e dava responsi a guisa di Oracolo. ↑
[7] A Delfo, la Pitia (sacerdotessa), seduta sopra un tripode d’oro, e nascosta dietro una cortina, rendeva gli oracoli in nome di Apollo. ↑
[8] A Dodona, in Epiro, sorgeva l’oracolo di Giove dove le sacerdotesse che vi presedevano traevano gli augurii dal modo come rumoreggiava la quercia sacra a quel Nume. ↑
[9] Virgilio – Eneide VI. 10-52. ↑
[10] Idem VIII 335 e s. ↑
[11] Così bellamente Pindaro (Pitia, Od. IV, tad. Pagnini):
Arde l’alta donzella, e alfin rivela
L’arti paterne al garzoncel diletto,
E unguento gli offre a non sentir le pene,
E promessa n’ottien di dolce imene.
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[12] … Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, Ninfa quantunque e Diva.
Odissea, trad. Pindemonte lib. 1 v. 21-25.
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[13] Circe, accolti fraudolentemente nella sua isola
Enea ed i compagni di Ulisse, con bevande esiziali,
convertilli tutti in sozzi animali,
… che avean di porco testa,
Corpo, setole, voce, ma lo spirto
Serbavan dentro, qual dapprima, intègro.
Odissea, X 241-42.
E Virgilio (Egl. VIII v. 70)
Carminibus Circe socios mutavit Ulyssei.
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[14] Testili, dove son gli allori e i filtri?
Fascia quel vaso con purpurea lana
Di pecorella, onde colui, che tanto
M’è crudo, astringa con incanti
… a me quel tristo
Non vien, né sa, se noi siam vive o spente.
Certo l’Amore instabile, e Ciprigna
L’han volto in altra parte. Andrò a trovarlo
Doman di Timagete alla palestra,
E a rinfacciargli il torto. Or con incanti
L’assalirò. Tu, Luna, alto risplendi,
Ond’io pian pian teco favelli, o Dea,
E con Ecate inferma, ond’hanno orrore
I cagnoletti allor, che per le tombe
Va degli estinti, e il sangue atro calpesta,
Salve, Ecate tremenda, e al fianco stammi
Fino all’estremo, e fa che i miei veleni
A que’ non cedan di Medea, o di Circe,
Né a quelli della bionda Perimeda.
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[15] Orazio, Epod. V Ode VIII e XII.
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[16] Bucolica, Egloga VII.
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[17] Carmina vel coelo possunt deducere Lunam.
Virgilio, La Bucolica, Egloga, VIII v. 69.
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[18] Così Medea in Ovidio.
… Iubeoque tremescere montes,
Et mugire solum, manesque exire sepulchris;
Te quoque, Luna, traho.
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[19] Sopra gli errori popolari degli antichi – Della Magia p. 39 – Ediz. Viani.
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[20] Species Magiæ, scriveva lo stesso Plinio, purea sunt. Nacque et ex aqua, et ex sphaeris, et aere, et stellis, et lucernis, ac pelvibus, securibusque, et multis aliis modis divina promittit, Hist. nat. Lib. XXX cap. 5.
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[21] Odi, lib. 1 ode 17.
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[22] Virgilio, Eneide libro VII 752-65. Così poi scrive lo Scoliaste di Prudenzio (contra Symmachum, lib. II): Thessalia abundans est venenis et herbis quibus magicam faciunt Magici et incantatore, e quibus Erichto fuit.
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[23] … Marsica pubes
Et bellare manu, et chelydris cantare soporem,
Vipereumque herbis hebetare et carmine dentem.
Silio Italico, Punica VIII 455-7.
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[24] Oggi non è più Angizia che riscuote nella Marsica le adorazioni del volgo, ma un S. Domenico Abbate, in Cuculo (paesello della Marsica stessa), si è sostituito alla sorella di Circe, onde a Cuculo traggono da ogni parte i devoti per liberarsi dei veleni dei serpenti, e da quello inoculato da cani, od altri animali attaccati da idrofobia. Ivi si crede che i serpenti non abbiano veleno, e i ciurmadori di quel paese li carezzano con voluttuosa compiacenza.
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[25] Dante, Inferno – Canto XX 47-52.
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[26] Forse l’aver mostrato Virgilio in quest’Egloga quanto egli fosse stato addentro nella conoscenza dell’arte degli incantesimi ha potuto dare origine alla leggenda, che egli fosse stato un mago per bene, e questo concetto, fatto pieno ed intero, divenne ovvio in tutti i paesi latini, né v’era scrittore di qualsivoglia ordine che non ne sapesse. Il mezzodì d’Italia ne era più di ogni altro ripieno, ed oggi scrive il Comparetti (Virgilio nel Medio Evo, 1896 v. 2, p. 181), è bello a vedere conservarsi tuttora vivente nell’estremo lembo della Penisola, dopo parecchi secoli, la ricordanza di quelle « arti di Virgilio » nel seguente ben più fino, sincero e grazioso canto d’amore udito sulla bocca di una contadina in un piccol villaggio presso Lecce, a non molta distanza da Brindisi, ove il poeta morì.
Diu! Ci tanissi (= avessi) l’arte da Vargillu!
‘Nanti le porte to’ ‘nducia (= condurrei) lu mare,
Ca da li pisci me facia pupillu (= piccolo e grazioso pesciolino)
‘Mmienzu le riti to’ enìa (= verrei) ‘ncappare:
Ca di l’acelli me facia cardillu.
‘Mmienzu lu piettu to’ lu nitu a fare;
E suttu l’ombra de li to’ capilli
Enìa de Menzugiurnu a rrepusare
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[27] Satyricon LXII.
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[28] De Civitate Dei XVIII.
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[29] Desent, Norse Tales. Introd. P. CXIX.
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[30] Hanusch, Slaw Mythologie, p. 286-320.
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[31] Grimm, Deutsche Mythologie, p. 1047.
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[32] M. Taylor – La civilizzazione primitiva.
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[33] Grazioso è questo brano del Satyricon di Petronio (Cap. XI), nel quale si fa menzione di un Folletto cui era stato rubato il cappello da un tale, che con esso s’impadronì d’un tesoro. « Vedi (così uno de’ commensali di Trimalcione ad un altro invitato che eragli vicino), vedi colui che se ne sta all’ultimo luogo? Adesso ei possiede i suoi ottocento talenti; pur vien dal nulla; poc’anzi usava portar legna sulle sue spalle. Ma dicono, come ho udito (che io no’l so) che egli abbia rubato il cappello ad un Folletto, e che trovò un tesoro ».
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[34] Era così diffusa presso i popoli settentrionali la credenza in questi esseri misteriosi, che intorno ad essi si aggira una buona parte de’ vecchi canti magici della Scandinavia – L Piveau, Vieux chants populaires scandinaves – Paris, 1898.
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[35] Du Cleziou – La creazione dell’uomo e i primi tempi dell’umanità trad. ital. Milano, 1887, p. 438.
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Inciarmatori maghi e streghe di Benevento
Fra le diverse provincie dell’Italia meridionale vien designata come la più superstiziosa quella di Benevento, dove tanti e tanti parassiti mettendo a profitto le loro furberie s’impinguano alle spalle dei creduloni: il che fece pensare a più di uno che gli abitanti del beneventano fossero meno civilizzati e che alquante migliaia d’individui si trovassero immersi in tale ignoranza da non invidiare quella di alcuni selvaggi. E ciò non è del tutto inesatto; perché oggi è la miseria che tiene in quella provincia lontano dalle ventiquattro lettere dell’alfabeto migliaia di bambini ed un tempo i diversi dominatori la ridussero superstiziosa, povera e serva[1].
[2] Come preavviso, dico che il disegno e l’intendimento di questo mio studio si è di apportare un lieve contributo all’antropologia criminale del nostro mezzogiorno. Io non so se vi riuscirò; ma se ciò avvenisse, sarebbe questo il premio più desiderabile alle mie fatiche ed allora non mancherei di ripetere:
E come quei, che con lena affannata
Uscito fuor del pelago alla riva,
Si volge all’acqua perigliosa, e guata.
La credenza negli stregoni non è mica di data recente; perché le primizie delle loro gesta si perdono nel buio dei secoli.
Pur tuttavia dalla Bibbia rilevasi che maestri nell’arte degl’incantesimi erano gli egizii. Infatti nel cap. VII, v. 11, 12, e 22, e nel cap. VIII, v. 7, dell’Esodo leggesi che ad istanza di Faraone i sapienti ed i maghi, mediante gl’incantesimi e certi [3] altri segreti, riuscirono ad imitare ciò che facevano, per ordine del Signore, Mosè ed Aronne, di tramutare cioè le loro verghe in dragoni, di cambiare l’acqua in sangue e di far coprire la terra d’Egitto di ranocchie.
La Rossi-Gasti è di parere che l’intervento degli esseri soprannaturali nelle faccende degli uomini giunse fino a noi colle tradizioni dei tempi eroici e sotto la splendida veste della leggenda mitologica; per me tra il capitano antico, il quale aspetta trepidante il responso dell’oracolo, e la fanciulla, che scruta ansiosa i ghirigori apparsi sulla superficie dell’acqua posta a ghiacciare nella notte dell’Epifania, corre una trama sottile, ma visibile di fili che legano le età remote alla nostra.
Magi, indovini, auguri, negromanti, astrologi, Anfiarao, Tiresia, Michele Scotto, Guido Bonalto, Asdente, Merlino, Atlante, Simone, Faust, Mefistofele, Asmodeo, Giuseppe Balsamo, la tradizione, la leggenda, il mito, l’epopea, il romanzo… qual sontuoso banchetto delle fantasie! che sfilata di meraviglie! che baraonda di prodigi! Né in questa rassegna di creazioni fantastiche vuol essere lasciato in dimenticanza l’elemento muliebre. Ecco Circe e le sirene, Medea e Manto e Cassandra; ecco le sibille dibattersi tra le convul- [4] sioni orrende a pié della mistica cortina donde uscirà il responso di Apollo. Un bel giorno la civiltà manderà coteste signore a riposare per sempre tra i polverosi volumi dei classici antichi; ma il popolo, tanto tenace nell’affermarsi al passato,quanto restìo nel piegare innanzi al presente, vorrà serbare in sé e per sé le immagini radiose e strane, magari sotto nomi e vesti nuove.
Osservate il sorriso arguto di messer Ludovico Ariosto occupato a plasmare le figure delle sue maghe,e dal cervello del poeta vedrete liberarsi la bionda testa di Alcina, poi uscire a delinearsi man mano le altre splendide figlie della fantasia ariostesca. Più tardi Tasso riempirà di grazie e d’incanti il grembo di Armida. Or chi vi dice che il popolo non entrasse proprio per nulla nelle concezioni di questi nostri poeti?
Chi vi assicura che non abbia innanzi fornito inconsciamente gran parte della materia da essi con tanta perizia lavorata? La produzione della fantasia popolare continua copiosa e geniale, con una fioritura di tipi sempre nuovi; prima sono diavolesse, versiere, indovine; poi vengono zingare, estatiche, sonnambule; dall’Olimpo alla capanna, dalla reggia alla piazza, da [5] questa al manicomio, la sfilata procede fitta traverso gli anni e i secoli[2].
Siffatte credenze, scrisse il Cantù, si conservarono traverso al medio evo, sicché ne sono piene le leggende, nelle quali si confondono il misticismo e l’empietà, il tremendo ed il grottesco; repulsate dai legislatori e dai dottori, ma serbate tenacemente dal volgo, finché vennero a mescolarsi con quella fungaia delle scienze occulte. Ci è noto dalla storia che fino al principio del secolo XVII parecchie streghe e non pochi maghi furono perseguitati dalla giustizia ecclesiastica e più di uno ebbe la poco piacevole sorpresa di essere bruciato vivo.
« Dicesi, aggiunge la citata Rossi-Gasti, che la biblioteca civica di Trento possegga gli atti di un processo dell’anno 1505 contro parecchie donnicciuole imputate di stregoneria, delle qual otto vennero condannate ad essere bruciate vive. La sentenza fu eseguita in Calvese il 15 marzo 1505. Le infelici portavano nomi strani e fantastici, co- [6] me Zog, donna Benzog ed altri simili assunti probabilmente per colpire l’immaginazione del popolino e così procacciarsi credito alle pretese malie.
Quel giorno le vittime furono otto; ma nessuno può dire a quante centinaia ascendano le poverette mandate a morte per la stessa causa. Ve le figurate voi sotto lo strazio della tortura, che dilaniava loro le carni in atto di balbettare la confessione di una colpa che esisteva solo nelle zucche asinine dei loro giudici? Le vedete sfatte, livide, coi capelli irti, colle mani legate al dorso e tutto il corpo ravvolto nella cappa nera, condotte al supplizio con apparato di funebre teatralità; le vedete contorcersi, resistere, ribellarsi e finalmente piegare affrante sotto la mano del carnefice che le lega al palo?
Udite gli urli che già non hanno più nulla di umano, coi quali annunciano i primi assalti delle fiamme? Erano streghe; vale a dire, sventurate ignoranti cadute nelle mani di belve ree forse di malafede non certo di morte». E la plebaglia, che presenziava a quelle scene ributtanti, applaudiva come se si trovasse in un teatro e si beava dell’odore che tramandava la carne umana.
[7] en ti sta questa scottatura, amica del diavolo, dicea qualcuno. Fammi ora una malia, rispondeva un altro; e quando il palo inzuppato di grasso umano finiva di ardere, allora quella massa inumana si versava su quegli avanzi gridando: Che sia, o brutta strega, dispersa dal vento la tua infame cenere, ed armatasi di pali la spargeva in tutti i sensi. Ciò che scrisse la Rossi-Gasti, intorno alle vittime dell’inquisizione per creduta fattucchieria o stregoneria, non è che una minima parte; perché il Mohesen racconta che nell’Elettorato di Treveri ai giorni dell’imperatore Massimiliano I se ne processarono 6500, che nelle Fiandre nel 1459 se ne mandò a morte un buon numero, che a Ginevra se ne contarono di condannati 500, che la Spagna e la Francia giacquero tutte sanguinose di lor supplizi.
Pietro Crespet riferisce che sotto Francesco I si contavano nel regno centomila fattucchiere. Nicola Ramigio, cancelliere del duca di Lorena, si vantò di aver sentenziato a morte novecento streghe in quattro anni. Enrico IV ne fe’ bruciare vive seicento nella sola provincia di Labourd; in Islesia nel 1631 ne perirono duecento[3].
[8] Costantino il Grande fe’ uccidere il filosofo Soprato perché venne denunziato come mago, e Batteaux narra che Teodoro, uno dei ministri di Valente, si lasciò sedurre da alcuni indovini che gli annunziavano l’impero. Ciò fu causa di una orribile esecuzione: gran numero d’innocenti fu involto nel supposto delitto di magia. Si accesero i roghi per punire i filosofi in gran parte infatuati di assurde visioni. Co’ loro libri si bruciarono ancora quelli di fisica e di letteratura. Al celebre Massimo, maestro di Giuliano, fu troncata la testa[4].
Nel medio evo tali credenze, come opina il Grimaldi, erano talmente radicate che il volgo accusava di magia colui il quale sapeva più degli altri; e furono così ritenuti non solo Zoroastro, Orfeo, Pitagora, ma anche un’altra schiera di uomini che dovevano essere stimati per le loro virtù morali, come Alberto Magno, Pico della Mirandola, Tritemio, Bacone, S. Tommaso d’Aquino, Gregorio VII, Sisto V, Silvestro II[5], [9] Cecco d’Ascoli, Pietro Da guerra, Martino Consalvo, Massimo Efisio, Niccolò il Calabrese, Michele Nostrodamo, Ollero, Giovanna d’Arco, Giacomo Broccardo, Tanchelino, Cosimo Ruggiero, Girolamo Cordano, Enea Silvio Piccolomini, divenuto poi papa col nome di Pio II, Dante Alighieri e Girolamo Savonarola[6].
Anche il Tetrarca venne accusato di magia presso Innocenzo VII da un canonista perché leggeva [10] Virgilio, essendo risaputo che in quegli oscuri tempi l’autore dell’Eneide era ritenuto pel primo stregone del mondo, ed ognuno, soggiunge il Grimaldi, il quale sapesse di rime non isfuggiva a tal fama; tanto che lo Squarciafico dice del tempo di Tetrarca: Fuit illa tempestate poeticum ita invisum, ut qui illa studia sequeretur, magum, sortilegum et haereticum esse dicebant. Tantoché il Tetrarca non tamen sine labore se purgavit.
[11] Gianrinaldo Carli[7] riferì che Giambattista della Porta fu accusato di maleficio perché intendeasi di alcuni naturali segreti. Opinò Monsignor Davanzati, arcivescovo di Trani, che nel 1690 in Firenze fu imprigionato il marchese Scotti dalla Inquisizione della stessa città per aver fatto vedere al popolo alcune apparenze. Maffei scrisse che egli ed il Segur furono presi per maghi in Verona, allorquando nelle pubbliche esperienze per virtù dell’elettricismo accesero le candele spente con accostarle all’acqua fredda, lo che non si era veduto né udito mai. L’avvocato Giuseppe Raffaele[8] scrisse nel 1770 che nei secoli incolti chi professava matematica veniva imputato di magia; onde vi un titolo nel codice con cui si provvede al castigo dei matematici. Riferisce Naddeo[9] che in Salamanca, prima di Ferdinando re di Pastiglia, passò voce d’insegnarsi Magia benefica per le scuole di matematica che vi fiorivano. Presso i Longobardi, quando correvano tempi [12] rozzi in Italia, era sì grande la credenza che avevasi alla stegheria, che le donne sospette di tal reato si davano a morte dal popolaccio; onde fu che Rotario, principe, a cui tesse dovuti elogi l’autore della Storia civile del Regno di Napoli[10], che fu il primo a da le leggi scritte al quel popolo, dovè provvedere con leggi speciali alla salvezza di dette infelici[11]. [13] Finalmente nella Germania, prima della grande opera di Cristiano Tommasio, bastava ad una povera donna avere gli occhi arrossati per essere punita seriamente qual fattucchiara[12].
[14] Ora facciamoci una domanda:
Quale interesse avevano gli inquisitori di mandare tanti infelici al supplizio?
Al che risponde Gioja nel suo Libro del merito e delle ricompense che gl’inquisitori avrebbero decapitato il mondo intero se il loro dominio si fosse esteso da per tutto: tutti gli uomini, fuorché essi, divenivano stregoni e ciò perché ricevevano per ogni creduta strega alquanti scudi.
L’opinione del soprascritto scrittore non è pienamente condivisa dal russo Paulowic’, perché tale egregio autore, nella sua pregevole memoria «La stregoneria nel rinascimento e sotto la riforma» così si esprime: «Alcuni scrittori storici moderni manifestano l’opinione che la persecuzione degli stregoni e delle streghe ha per motivo principale l’avarizia degl’inquisitori.
Questa opinione pare molto esagerata. Ed infatti, se troviamo alcuni processi molto profittevoli pegli inquisitori, dobbiamo anche dire che forse era un più gran numero di processi, che diedero niente né agli accusatori, né ai giudici. Quali erano le ricchezze che rimanevano fra le mani dell’inquisizione dopo la morte di un bam- [15] bino di otto anni o d’una povera, solitaria, brutta vecchia? Se la sincerità di alcuni ecclesiastici, come, per esempio, del vescovo Giovanni-Giorgio di Brandeburgo, può essere sospetta, non siamo in istato di dubitare che le idee manifestate da Bodin, Gerson ed altri non provenissero dalla loro convinzione. È evidente che le cagioni non son qui».
Ma perché tutto ciò succedeva a preferenza nel medio evo?
Perché nel medio evo, dice Pouillet[13], il libertinaggio e la promiscuità dei sessi, conseguenza della miseria, era al colmo; e si potea probabilmente attribuire in parte alla masturbazione la causa di quelle epidemie nervose: epilessia, isterismo, corea, catalessia, estasi, furore uterino ecc. chiamati allora stregonerie che infierivano in gran numero d’individui alla volta e che i giudici ecclesiastici guarivano radicalmente col fuoco[14].
[16] La pena capitale era conseguenza di un regolare processo. Sono stato assicurato che prima del 1860 nell’archivio arcivescovile di Benevento ne esistessero circa duecento, che poi per suggerimento di un alto prelato furono affidati alle fiamme.
Il processo veniva istituito in seguito a denunzie, quasi sempre di anonimo, ed uno di questi documenti è il seguente:
Honorevole padre una moltitudine di gente è venuta da me per far sapere per mezzo mio alla Eccelllentia vostra che nel nostro paese e propriamente presso la casa di Luigi Calattra vi esiste una habitatione con entrata ad arco occupata da un certo Agnolo, il quale ogni notte [17] vi tiene conciliabolo di uomini e donne e fanno cose che non si riferiscono a Dio e alla sua Santa Madre, ma a Satana e a Belzebub. Unde io per coscientia ho stabilito tenerne informato Vostra Eccellentia acciò si styrpino dal nostro paese questi dannati affidandoli alli Inquisitori e così si metterà sempre più in chiaro che Dio è la vera luce[15].
I libri dell’epoca dicono che qualche volta, in caso di dubbio se l’individuo fosse o pur no malefico, veniva gettato nell’acqua mandando assoluto chi non restava a galla[16]. Altre fiate le stre- [18] ghe venivano sottoposte alla tortura, le quali avevano la potenza di strappare confessioni; e, se oppresse dai dolori si confessavano ree, il popolo battendo le mani esclamava: Si è d’accordo; se al contrario si mostravano coraggiose e forti, esso diceva: Il demonio le tiene salde. Se le misere cadevano svenute e nello svenimento rivolgevano gli occhi intorno, Ecco, gli spettatori esclamavano, le miserabili vanno in cerca de’ loro amanti. Se infine le sofferenti emettevano dei sospiri, si [19] gridava da quella gente incosciente. Abbiamo capito: il demonio in eterno loro serberà fede.
«Nel secolo XV e XVI ogni processo di malia, dice B. Paulowic’[17], finiva o con la morte o con altre gravi pene dell’imputato: la prigionia perpetua nel così detto in pace, il rogo, la privazione dei membri: ecco il risultato di questi processi. La malia fu un delitto straordinario (crimen exceptum), i giudici di essa furono liberi dalle ordinarie formalità giuridiche; non vi fu bisogno né della confessione dell’imputato, né del numero dei testimoni prescritto dalla legge; i principi accordavano agli inquisitori la piena libertà d’azione per tali casi…
I falsi delatori non venivano puniti; alla porta [20] delle chiese si ponevano le cassette destinate specialmente alle delazioni anonime». Di questi vili accusatori se ne contava un gran numero ed a processo compiuto chi declinava il proprio nome divideva cogl’inquisitori gli averi del condannato[18].
Le leggi imperiali dicono che a niuno sia permesso l’indovinare sotto pena della testa e chiunque con arte magica insidia alla vita degl’innocenti e spinge le donne oneste alla lascivia si deve dare alle bestie per essere divorato. Come [21] anche deve essere cruciato chiunque confesserà essere mago previa lacerazione del corpo con uncini. E nel codice De Maleficiis sta scritto: Agli stregoni non è permesso andare nelle altrui case: e se ci anderanno siano arsi et abbruciati e colui che li consiglia o li riceve in casa sua deve essere bandito e confiscatili tutti i beni.
Ne 1484 Innocenzo VIII emanò una bolla dove leggesi: « Noi abbiamo sentito che molti uomini e molte donne non fuggono il commercio colle forze infernali e fanno danno al loro prossimo ed agli animali per mezzo della malia. Essi turbano la vita domestica, fanno diversi mali alle donne gravide, impediscono il nascimento degli animali domestici, danneggiano i grani, le vigne, i frutti, l’erbe». Un’altra bolla di simile contenuto fu edita dal papa Giulio II nel 1504, ed una terza dal papa Adriano VI nel 1523.
Importante poi è la bolla di Sisto V sull’Astrologia ed i Maleficii, dalla quale trascriviamo questo importante brano: « Noi dunque, che, per carico dell’officio nostro pastorale, dobbiamo conservare inviolata la integrità della fede, desiderando con le viscere di paterna carità provedere la salute delle anime quanto colla divina grazia sia possibile, condannando e riprovando ogni sorte di divinazione che dai predetti curiosi e scelerati [22] homini si suol fare per inganno de’ fedeli; desiderando oltre di ciò che quella santa semplicità della cristiana religione, massime della somma potenza, sapienza e provvidenza di Dio creator nostro si ritenga intiera ed incorrotta d’ogni macchia di errore come si conviene; volendo ancora ovviare alla predetta falsa credulità ed a simil studio abominevole di illecite divinazioni e superstizioni o maledette ribalderie ed impurità, acciò meritamente si possa dire dal popolo cristiano quello che è scritto dell’antico popolo di Dio “Non si trova augurio in Iacob, né divinazione in Israel”; per questa costituzione, la quale ha da valer perpetuamente, con autorità apostolica ordiniamo e comandiamo che tanto contro gli astrologi, matematici, ed altri qualsivoglia che per l’avvenire esercitano l’arte della detta astrologia giudiziaria… quanto contra gli altri dell’uno e dell’altro sesso che esercitano, fanno professione, insegnano, ovvero imparano le sopradette dannate false, vane e perniciose arti, over scienze d’indovinare o veramente quelli che fanno simili non lecite indovinazioni, sortilegi, superstizioni, stregherei, incantesimi ed altre predette abominevoli scelleratezze e delitti, come si è detto overo in qualsivoglia modo s’intromettono in quelle, di qualunque dignità, grado e condizione si siano, tanto [23] li vescovi e prelati, superiori ed altri ordinarii de’ luoghi, quanto li inquisitori della gravità eretica deputati per tutto il mondo, ancor che per l’addietro non procedessero contro molti di simili casi o non potessero procedere, con maggior diligenza facciano inquisizione o procedano e più severamente li castighino con pene canoniche ed altre a loro beneplacito.
Proibendo tutti e ciascun libro, opere e trattati di tale astrologia giudiziaria ed arte d’indovinare, per la terra, per l’aqua, per l’aria, per il fuoco, per li nomi, per le mani, per li morti e magie, overo che contengono sortilegi, stregherei, augurii, auspizii e maledetti incantesimi e superstizioni, e come interdetti nel soprannominato indice non si leggano o tengano da qualsivoglia fedele cristiano, sotto le censure o pene che in esso si contengano, ma che si debbano presentare e consegnare nelle mani de li vescovi e ordinarii dei luoghi o inquisitori predetti.
E nulladimeno con la medesima autorità ordiniamo e comandiamo che contro quelli, che ritengono o leggono simili libri e scritti similmente, gli stessi inquisitori liberamente e lecitamente procedano e possano procedere e punire con pene meritevoli e costringere, non ostante le consitu- [24] zioni ed ordinazioni apostoliche, ed altra qualsivoglia cosa in contrario…[19]».
Non voglia credere il lettore che la caccia alle streghe fosse stata una specialità del medio-evo perché nel cap. XXII, v. 18 dell’Esodo sta scritto: maleficos non patieris vivere (non lascerai vivere gli stregoni) e nel cap. XX, v. 6 del Levitico dice Iddio: Anima, quae declinaverit ad mago set ariolos, et fornicata fuerit cum eis, ponam facies meam contra eam et interficiam illam de medio populi sui (Chiunque andrà dietro ai maghi e agli indovini, e si affezionerà ad essi,io sarogli nemico e lo sterminerò dalla società del suo popolo) e nello stesso capitolo v. 27 leggesi ancora : Vir sive muliter, in quibus Pythonicus vel divinationis fuerit spiritus, morte moriantur: lapidibus obruent eos, sanguis eorum sit super illos (L’uomo o la donna che ha lo spirito di pitone o d’indozzamento, saran messi a morte: li lapideranno: sia sopra di essi il lor sangue).
Ciò che mostra il carattere di queste stregonerie è che qualcuno, sottoposto al giudizio, con- [25] fessava che in quello o in quell’altro giorno aveva visto il diavolo riferendone anche il dialogo: in questo caso trattatasi al certo di individuo che non aveva il cervello a posto, ma affetto da demonomania con allucinazioni e stato estatico.
Ma perché la credulità e l’ignoranza assale principalmente la donna, un essere più debole dell’uomo? Pare a noi, dice il già citato autore della Stregoneria nel rinascimento e sotto la riforma, che la prima causa di questo fatto consista nelle idee religiose.
La donna fu cagione del peccato originale. L’ascetismo cristiano vedeva in essa uno de più grandi pericoli per la vita futura; oltre di ciò la donna è ordinariamente più nervosa: essa è più spesso soggetta alle alterazioni, al sonnambulismo. La tortura la costringeva più facilmente a confessare ciò che piaceva agl’inquisitori; forse anche i tormenti distruggevano spesso la potenza morale, e l’infelice imputata sotto l’influenza della paura e dei dolori convincevasi d’aver avuto commercio col diavolo, d’aver fatto viaggi aerei sul capro o sulla scopa. Potremmo recar molti esempii, che spesso furono condannate al rogo donne che oggi sarebbero curate come pazze.
Qualche volta s’ebbero anche casi molto tragici, come, per esempio, il seguente. «Una donna in- [26] glese, narra Michelet, condannata al rogo, ha detto: Non accusate i giudici di ingiustizia; io stessa voleva morire. Lo sposo mio mi abbandonò; io fui bandita dai miei genitori.
Perché tornerei nel mondo, se non per vivere miseramente?
Io voglio morire e perciò ho mentito, ho dato ai giudici testimonianza contro di me[20]».
Se la plebaglia poi godeva nel veder ardere viva quella gente, non era tutta colpa sua; perché, se ignorava ciò che pensava l’Alciato[21], essere la cosa degna di essere creduta dalle feminette e che S. Agostino faceva cadere in iscomunica chi prestava fede a cotali novellette da donnicciuole[22], teneva però presente che il diavolo tentò tormentare Giacobbe e traviare Gesù Cristo; perché egli non potrebbe anche oggi far danno agli uomini?
[27] E poi e poi, dice il Bodin[23], lo stesso Tommaso d’Aquino non era persuaso che il diavolo potesse apparire sotto varie forme; ch’egli potesse dare agli uomini la forma di bestie; ch’egli fosse capace di cagionare le guerre, le malattie, le tempeste.
Giovanni Crisostomo manifesta l’opinione che in molte donne abiti lo spirito infernale pronto a sedurre i cristiani.
Un teologo assicura che S. Bernardo avesse scoperto una donna, la quale fu per sette anni in commercio col diavolo, senza abbandonare suo marito neppure un sol momento[24].
Bacone attesta che la persecuzione degl’incantatori è sacra e indispensabile. Lutero, Melantone, Martino de Arles, Ponzinibo, Giambattista della Porta[25], Ulrico Molitore, Vairo ecc. cedettero, se non in tutto almeno in parte, alle gesta dei maghi e delle streghe.
Paolo Grillando, nel suo trattato De sortilegiis, scrisse che il demonio per opera di una maliarda aveva fatto parlare il nero cane della maga Francesca Serena, che aveva tramutato in asino un [28] cavaliere di S. Giovanni e che aveva fatto prendere le fattezze di gatta a tre donne.
E chi non avrebbe prestato fede al Priero, il quale asserì che un viandante fu fatturato col solo sguardo da una strega e che un lavoratore contrasse la lebbra per opera di una di queste donne.
Che il diavolo avesse avuto in quell’epoca la predilezione per l’elemento muliebre, non deve arrecarci meraviglia perché trattasi di sessi differenti; ma che avesse avuto la sfacciataggine di fare qualche brutto scherzo anche al sesso forte, ciò gli è imperdonabile.
Ecco come il padre Vadano, che in quell’epoca godeva la stessa fama di oratore che oggi gode tra noi il padre Agostino da Montefeltro, riferisce la cosa.
Un tale conte ammogliatosi non riuscì per lo spazio di tre anni «cogliere il frutto dal tale albero della scienza del bene e del male» perché fu fatto fatturare da una sua domestica colla quale, prima del matrimonio, visse troppo intimamente. E la stessa cosa dice Paolo Grillando toccò ad un gentiluomo.
Io riproduco il racconto come fu narrato dal [29] cappuccino padre Francesco Valerio veneziano, che visse nel 1714.
«Un certo gentil’huomo letterato di buona conditione, et fama, mi narrò, che essendo nel fiore della sua gioventù, nel tempo, ch’egli prese moglie poiché l’hebbe con molta solennità e fasto condotta a casa, fu talmente maleficiato e fatturato da una malefica che non potè per moltissimi giorni “squarciare quel tale valium del sancta santorum” del che egli si aveva gran cordoglio, e vergogna, meravigliandosi infinitamente di onde tal cosa gli avvenisse e per quanti rimedii egli adoperasse, non poté mai per niuno esser liberato da tale sua infermità né i medici trovarono cosa alcuna che li giovasse quantunque molte ne applicassero. Finalmente fu consigliato da un certo vecchio, che mandasse a cercare un huomo, che si chiamava maestro di grande esperienza, il quale era invero solennissimo mago e malefico.
E trovato, che fu, venne dal detto gentil’huomo, il quale, come da lui fu veduto, conobbe subito la sua infermità e gli promise di liberarlo in brevissimo spazio di tempo, che fu in una sola notte. Onde egli comandò, che la notte seguente stesse con la moglie, dandosi prima che andasse a letto un beveraggio.
[30] E che per modo niuno temessero se quella notte vedessero o udissero alcuna cosa, perché non li poteva nuocere cosa alcuna. Tutto promise di fare il gentil’huomo, per desiderio di essere liberato da quel diabolico maleficio, ed osservò il tutto benissimo.
Et eccoti, che stando nel letto alle cinque ore di notte cominciò ad udire grandissimi tuoni, folgori, piogge, tempeste e terremoti tanto terribili, che tutta la casa era conquassata da’ venti.
Udì poi con voce umana certi urli, lamenti e gridi. E volgendo gli occhi vidde a comparire nella camera più di mille persone, che combattevano insieme l’una contro l’altra, e con pugni e con calci, et unghie crudelmente si laceravano e stracciavano le faccie l’uno con l’altro e le vestimenta. Fra i quali vidde una donna d’un altro Castello vicino, la quale da tutti era tenuta per Maga, della quale egli molto sospettava, che non l’avesse fatturato.
E questa mala donna più di tutti gridava e con tormenti maggiori era cruciata, e con le unghie si aveva stracciato tutti li capegli e la faccia e mandava urli grandissimi.
Delle quali cose il gentil’huomo nel principio aveva grandissimo spavento dubitando, che non gli avvenisse alcun male, ma ricordandosi di quel- [31] lo, che gli aveva detto il mago, che non dovesse temere per cosa, che udisse, o vedesse, riprese vigore, tenendo però nascosta la moglie sotto i panni, acciocché ella non vedesse quelle tanto spaventose cose.
Dopo che quelle apparite genti hebbero combattuto così per spatio di mezza ora, entrando il mago nella detta camera, tutte quelle persone insieme colla maga disparvero via.
Et accostatosi il mago al gentil’huomo maleficiato gli toccò le spalle con la mano, e fregandoglile alquanto dissegli, che più non dubitasse; perché era già liberato da tale maleficio e si partì via. Et all’hora si sentì il gentil’huomo a riscaldare tutto il sangue, e divenne perfettamente sano che poi hebbe molti figliuoli e visse lungo tempo in buona e santa pace colla moglie sua»[26].
[32] Che ne dice l’ottimo oratore Padre Francesco Saverio da Napoli di questo suo predecessore?
Senza però riandare a’ tempi antichi, ricordo che pochi anni or sono venni consultato da un [33] giovane di Guardia Sanframondi, in quel di Benevento, il quale aveva menato in moglie una delle più belle ragazze del paese.
La madre dello sposo, senza badare a spese, si recò in Napoli e chiese ai più eminenti clinici di quella città delle prescrizioni per far guarire il figlio; mentre la madre della sposa «per non far più soffrire la figlia» voleva intavolare le pratiche per il divorzio. Il movente di tanta discordia era che G. e C., benché marito e moglie da circa sette mesi, pure vivevano come… fratello e sorella.
Il G. mi disse, con tutta convinzione, che prima di sposare la C. amoreggiava con un’altra giovinetta, la quale il giorno precedente al suo matrimonio ebbe il coraggio di dirgli in barba, forse ad istigazione di qualche maliarda: Che puozze vicino a mugliereta restà comme a nu totaro! Ebbene queste parole ebbero tale e tanta influenza sull’animo del G. da renderlo inabile per certe funzioni.
Il padre dell’infermo, che è un uomo di grande esperienza, avendo visto che le cure tonico-ricostituenti e la elettro-terapia avevano dato cattiva prova, pensò di andare da una strega di Morcone, la quale, che se ne dica, porta il primato per le scioglitore.
[34] Questa maliarda, che ha passato buona parte della sua vita in case di prostituzione, in giorno stabilito si recò in casa del G. e, fatta la diagnosi di… fattura a morte, si procurò un bicchiere con acqua calda e vi versò dentro un po’ di fiore di grano, al quale, di nascosto, aveva mischiate del lievito.
Disse poi all’inabile marito: Tu sarai libero dalla fattura se il contenuto di questo bicchiere aumenterà di volume, il che regolarmente successe e da quel giorno il G. divenne uomo come tutti gli altri. Ora una vezzosa bambina lo chiama col dolce nome di padre.
La giustizia civile dal canto suo, se non mandava spesso a morte, non si rendeva avara di ammannire pene a questi infelici.
Vediamo ora, dice B. Paulowic’, ciò che dicono in proposito i capitolari di Carlo Magno ed alcuni altri monumenti giuridici della prima metà del medio-evo. Troviamo in un capitolare[27] la minaccia di grave pena a quelli che perseguitassero un uomo sospetto di stregoneria senza averne [35] prove evidenti; un altro capitolare[28] prescrive che lo stregone, il cui delitto sia provato, non debba essere ucciso, ma messo in prigione, per aver tempo di pentirsi e di ritornare alla vita cristiana… però tale capitolare non fu rispettato neanche dallo stesso Carlo Magno, perché sappiamo che esso ordinò una volta di far uccidere alcuni indovini e alla fine del secolo VI furono bruciate alcune donne devote alla corte di Fredegonda, perché la loro malia cagionò la morte d’un figlio della regina…
Il codice di Teodorico minaccia gli stregoni delle verghe, della prigione e della confisca dei beni; la legge Salica impone le mumte; la legge Longobarda paragona la strega ad una donna pubblica (vedi gli editti di Notario in nota della pag. 12 e 13).
Ma forse si obbietterà che queste leggi non sono severe, perché provengono da laici, mentre che nel secolo XVI i processi di magia erano ordinariamente tra le mani del clero.
Ma, rispondiamo anzi tutto, che, se il civile potere avesse avuto un’altra opinione su questa materia, avrebbe potuto limitare lo zelo dei clericali; in secondo luogo abbiamo molte prove, che [36] fino al secolo XII il potere civile per casi di malia, non era più mite dei clericali stessi.
Nell’anno 506 la chiesa chiedeva l’espulsione delle donne che avevano commercio cogli spiriti infernali.
Nell’anno 633 un prete spagnolo, che si abbandonava alle scienze illecite, era condannato alla prigione perpetua in un chiostro. Non bisogna dimenticare che questa pena era severissima; altre condanne di questo tempo non andavano al di là di due o tre anni di prigione.
«In mezzo a tutto ciò, dice la Rossi-Gasti, è orribile vedere tirare in ballo il Signore, la Vergine ed i Santi nel cui nome si commettono tali enormità, il cui sussidio s’invoca ad ogni tratto perché illumini le menti dei giudici e le guidi alla ricerca del vero».
Così col punire questi delinquenti o ammalati si avverava un connubio fra la toga nera del magistrato e la cappa degli inquisitori…
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Povera religione!
Povera giustizia!
[37] Per dimostrare con quanta poca serietà, si amministrasse la giustizia contro le credute streghe prendo in prestito dal Dandolo queste pagine, che rappresentano la parte più interessante di un processo, che ebbe luogo in Castelnuovo nel 1649. È una deplorabil istoria, dice il citato autore, nella quale ci introviam intromessi senza preliminari: vi scorgiamo una triste femmina, che ignara di risici, a cui si espone, denunzia altre femmine sue pari, e sottoposta a ripetuti esami, rafforzati da torture, termina con dichiarar sé stessa rea di tutte l’enormità, che apponeva altrui,
…
[110] …Anche oggi le gabbie delle Corti d’Assisi e gli sgabelli dei tribunali penali si vedono alle volte onorati delle credute streghe e dai maghi tradotti dalla benemerita arma dei reali carabinieri perché accusati di veneficii, di truffe o di altri reati commessi a danno dei creduloni[30].
[111] Ne riferisco due esempii che tolgo dalla Tribuna Giudiziaria. Sono dei feroci drammi domestici, come si rileva dalle seguenti requisitorie dei Procuratori Generali…
Note
[1] Senza occuparmi delle altre dominazioni ricordo che nel beneventano la condotta dei longobardi era stata in principio al massimo grado violenta e crudele.
Intere città erano state distrutte e gli abitanti parte uccisi, parte ridotti schiavi, sicché ancor più tardi giacean deserti vasti territorii con le loro città (Paulus Diaconus V. 29 – Riscontra pure Francesco Hirsch, Il Ducato di Benevento sino alla caduta del regno dei Longobardi, p. 30-31).
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[2] Rossi-Gasti, Le streghe ed il popolo (Rivista delle tradizioni popolari italiane, 1893).
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[3] Dandolo, vol. 3° pag. 211.
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[4] Batteaux, p. 107.
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[5] Il Pagi in Vita Silvestri II dice che il cadavere di Silvestro II giacque per più giorni insepolto per essersi nella sua stanza rinvenuto un libro di matematica pieno di figure che si stimò trattare di negromanzia.
I contemporanei di Silvestro II dicevano di questo amatore degli studi « Homagium diabolo fecit et male finivit ». Molte interessanti cifre intorno ai condannati nei varii paesi il lettore può trovare nei seguenti libri: Michelet, La sorcière, pag. 198, 206; Leeky, Geschichte der Aufkländerung, vol. I, pag. 3-5; Scherr, Geschichte der Civilisationi in Deutschland, pag. 403.
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[6] A proposito del Savonarola, io mi propongo, dice Pasquale Villari: Girolamo Savonarola e l’ora presente (Rivista d’Italia, numero di saggio, p. 16, 1898), di sottoporre alla vostra attenzione un problema, che la ha sua importanza storica non solamente, ma anche al sua importanza morale e religiosa, e si connette alle condizioni presenti del nostro spirito nazionale.
La prima questione che mi si presenta è: Come mai l’ombra del Savonarola, da ogni parte evocata, sembra a un tratto sorgere dalla tomba? Opuscoli, libri antichi, giornali destinati esclusivamente alla sua memoria, si stampano per tutto. Fin dal 1703 s’era abbandonato l’uso di spargere fiori sul luogo del suo supplizio. Quest’anno l’antica e pietosa usanza s’è rinnovata. Una qualche ragione ci deve essere.
Ma un’altra questione, connessa con la prima, si presenta ancora. Come mai avvenne che coloro i quali cercano rendere onore alla memoria del Savonarola lo fanno con sì diverse intenzioni, spesso anche con intenzioni fra di loro opposte? I protestanti hanno fatto la loro conferenza, pubblicato un numero unico ed un loro programma che dice: « Il Savonarola è dei nostri. I cattolici hanno torto marcio volendo far loro un uomo che combatté fieramente il Papa, da cui fu mandato all’estremo supplizio, impiccato, bruciato, gettandone le ceneri nell’Arno». I cattolici a questo si ribellano, e domandano: – Come mai si può pretendere di chiamar protestante un uomo che San Filippo Neri e S. Caterina dei Ricci adorarono come santo, che papa Benedetto XIV dichiarò degno di venerazione, che fino all’ultima ora della sua vita celebrò la messa, osservò le funzioni religiose cattoliche, adorò i santi, raccomandò la preghiera per liberare i peccatori dal purgatorio, e prima di morire si separò piangendo dal suo abito religioso come la cosa a lui più cara? Che altro può dunque farsi per essere ritenuto vero e sincero cattolico?
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[7] Lettera al Tortarotti.
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[8] Difesa di Cecilia Faragò inquisita di fattucchieria.
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[9] Apologia degli uomini illustri sospetti di magia.
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[10] Libro 4 cap. 6.
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[11] Ecco gli editti di Rotario intorno alle streghe, che riproduciamo esattamente nel suo latino barbaro:
1. De crimen nefandum. Si quis mundium de puella libera aut muliebre habens eamque stigma, quod est mascam, clamaverit, excepto pater aut frater ammittat mundium ipsius, ut supra, et illa potestatem habeat, vul ad parentes, vult ad curtem regis cum rebus suis propriis se commendare, qui mundium eius in potestatem debeat habere. Et si vir ille negaverit, hoc crimen non dixissit, liceat eum se purificare, et mundium sicut habuit habere, si se pureficaverit.
2. De crimen in puella iniectum qui in alterius mundium est. Si quis puellam aut mulierem liberam, qui in alterius mundium est, fornecariam aut strigam clamaverit, et pulsatus penitens mavefestaverit per furorem dixissit, tunc praeveat sacramentum cum duodecim sacramentalis suois, quod per furorem ipso nefando crimen dixissit, nam non de certa causa cognovissit. Tunc pro ipso vanum iproperii sermonem, quod non convenerat loqui, conponat solidos vigenti, et amplius non calumnietur. Nam si perseveraverit et dixerit se posse provare, tunc per camphionem causa ipsa, id est per pugnam ad Dei iudicium decernatur. Et si privatum fuerit, illa sit culpabilis, sicut in hoc edictum legitur. Et si ille qui crimen misit, provare non potuerit, wergild ipsius mulieris secundum nationem suam componere conpellatur.
3. Nullus presumat haldiam alienam aut ancillam quasi strigam, quem dicunt mascam, occidere; quod christianis mentibus nullatenus credendum est, nec possibilem ut mulier hominem vivum intrinsecus possit comedere. Si quis de cetero talem inlecitam et nefandam rem penetrare presumpserit, si haldiam occiderit conporat pro statum eius solidos 60, et in super adat pro culpa solidos centum, medietatem regi et medietatem cuius haldia fuerit. Si autem ancilla fuerit, conponat pro statum eius, ut supra constitutum est, si ministiriales aut rusticana fuerit; et in super pro culpa solidos 60, medietatem regi et medietatem cuius ancilla fuerit. Si vero iudex huic opus malum penetrare iusserit, ipse de suo proprio pena suprascripta componat.
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[12] Il numero delle condanne dimostra che la Germania era il paese dove la persecuzione per magia infierì di più. Questo fatto proviene dalla divisione della Germania in molti Stati indipendenti, e ciascuno stato istituiva il proprio tribunale, il quale emulava i vicini nella sacra causa delle persecuzioni; ma le cagioni principali delle persecuzioni erano dappertutto le medesime: l’opera di un tedesco Malleus Maleficarum di Sprenger, rassomiglia molto alla Démonomanie des sorciers del celebre francese Bodin. Così riferisce il Paulowic.
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[13] L’onanismo nella donna.
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[14] Nell’epoca medioevale esisteva nel napoletano, al dire dell’Amellino, la giustizia solo di nome, imperavano il privilegio e l’eccezione, le leggi erano feroci, all’equità era sostituito l’arbitrio e nobili ingegni e generosi si fecero a chiedere con voce autorevole opportune riforme; la morale era corrotta e l’esempio veniva dall’alto…
L’indole dell’amministrazione della giustizia penale napoletana del secolo XVIII nelle sue linee generali può essere definita: Feroce libidine di pene, attorto e spesso arbitrario procedimento nella forma inquisitoria, prodigalità di tortura. Ciò era in generale, ma in particolare all’estremo supplizio erano condannati i sodomiti, i ladri di cose sacre, gli stupratori, i maghi e gli stregoni.
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[15] Manca a questo documento anche la data. Proviene da Benevento.
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[16] La prova dell’acqua, il tuffo, consisteva nel ravvolgere l’accusato in un lenzuolo e poscia deporlo in uno stagno od in un fiume. Se galleggiava, non v’era dubbio che era stregone. (Tartarotti, Il Congresso notturno delle malie vol. 2° p. 304). Oltre questo esperimento v’era anche quello del duello (Brun, Istoria della superstizione vol. 2° lib. 5, p. 83), quello dei vapori irritanti dello zolfo ed in alcuni paesi era invalso l’uso di pesare in una bilancia il creduto stregone da un lato e dall’altro la Bibbia. Se l’individuo pesava più della Bibbia era considerato come malefico e senza altri complimenti veniva mandato al rogo (Bianco F. Lessicomania sotto la parola Bibbiomanzia). Fra tutti questi «giudizi di Dio» (così si chiamavano questi esperimenti) la prova più comune era quella del fuoco (Brun, Istoria della superstizione, vol. 2, lib. 5, p. 83) alla quale si voleva sottoporre il Savonarola. Ecco come vien narrata la cosa: «Certo Padre Francesco da Puglia, dei Minori, dal pergamo di S. Croce sfidava il domenicano Buonvicini da Pescia, proponendo lo sperimento del fuoco. L’uno difensore, l’altro oppositore della persona e della dottrina del Savonarola, entrassero ambedue nelle fiamme, chi ne uscisse illeso coglierebbe l’onore della vittoria. Il Buonvicini da Pescia accettava la sfida e con lui si offrivano alla prova i dugento trentotto religiosi del convento di S. Marco e tutto il seguito dei Piagnoni, uomini, donne, fanciulli, non escluse le suore domenicane di santa Lucia. A tanto entusiasmo, il fate dei Minori si scoraggia e propone in sua vece un laico per nome Giuliano Rondinelli. In questa disfida, che il fanatismo e l’ignoranza dei tempi comportavano, era singolare il concetto dei due campioni: il Rondinelli teneva per fermo di restar preda delle fiamme e confortatasi nel pensiero che il suo sacrificio potesse esere utile alla Chiesa involgendo nelle fiamme l’aborrito domenicano; il Buonvicini al contrario si confidava che Iddio lo avrebbe salvato dalle fiamme in testimonianza della santità del Savonarola. Il Popoleschi fu lieto di questo sperimento, perché gli si offriva così l’occasione di terminare con un falò le disputazioni. Le tesi della prova furono queste: 1° La Chiesa di Dio aver mestieri di riformazione. 2° La scomunica lanciato contro il Savonarola, perché manifestamente ingiusta, essere di niun valore» (L’A. d. C.).
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[17] La stregoneria ne rinascimento e sotto la riforma, (La Rivista Europea, anno VI, vol. 2).
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[18] Le donne che avevano la pericolosa ma anche allettante riputazione di streghe, conoscevano le proprietà delle diverse erbe e, come attesta l’aracelso, qualche volta, applicarono le loro nozioni con gran successo. Benché lo stregone e la strega fossero spesso chiamati al letto dell’ammalato, benché gli uomini chiedessero da loro consigli anche in diverse altre circostanze, l’aiuto prestato dagli stregoni non poteva sminuire la forza delle persecuzioni contro di loro. Il sentimento religioso impediva ad un fedele cristiano di tender la mano allo stregone; l’ammalato, forse salvato dalla strega, spesso denunziava all’inquisizione la sua salvatrice, volendo di questo modo riparare al suo peccato, cioè alla guarigione coll’aiuto dei mezzi illeciti (Paulowic’). Anche quel tal Francesco da Guardia Sanframondi, che nel 1897 fu denunziato al potere giudiziario, s’ebbe come testimone a carico uno dei suoi guariti. Non è un vero esempio di gratitudine?
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[19] Cantù, Schiarimenti e note alla storia universale, vol. 3. ↑ Torna al testo
[20] Michelet, La sorcière, pag. 196, 197. ↑ Torna al testo
[21] VIII Par. cap. XXII. ↑ Torna al testo
[22] De spiritu et anima cap. 21 et in c. episcopi 26 q. 5 Martin de Rio Disquisitionum magicarum lib. III q. XIV nega che talc anone fosse di S. Agostino; l’attribuisce invece ad Ugone Vittorino. ↑ Torna al testo
[23] La démonomanie des sorciers. Confronta Pulowic’. ↑ Torna al testo
[24] Caesarius Histerbacensis illustrium miraculorum lib. L. III cap. 7 (confr. Paulowic’). ↑ Torna al testo
[25] Magia naturale, lib. II. ↑ Torna al testo<
[26] Che i casi de impotentia coeundi vulgo Maleficatis, seu frigidis fossero frequenti negli antichi tempi ce lo mostra D. Pietro Piperni, il quale nel libro VI cap. XXXVI della sua opera De magicis effectibus eorumque dignotione, curatione medica, stratagematica,et divina propone per tali maleficiati queste cure: …idcirco divina prius curatione utendum, ac viva fide ad Deum ambo muniantur Sacramentis S. Ecclesiae, jeuiniis, eleemosynis, orationibus, alijs; Theologalibus virtutibus; recitentur saepe septem versiculi: Illumin oculos meos etc., et Evangelium S. Ioannis. In principio erat Verbum tum cap. penult. Apocalypsis cum orationibus ponendis cap. sequenti, et precationes S. Petri ad vinculam ; pomum nostrum portetur lib 3 ultimo compostum Sacraq ; Amuleta lib. 5. Ad praeservationem ponit Ronseus, p. varius etc. aliqua non scribenda. Perquirenda semper in omni affectione M. instrumenta magica, quibus adustis cessaret affectio; saepeq; iuvant stratagemmata, quibus usus est Comes quidam apud Spreng Q. I. C. I. Applicavi possunt omnia, quae a pratticantibus in hoc tractatu tractantur, tam in ratione victus, tacta in capde lactis exiccatione ; quam in aliis medicis instrumentis. Sponsus vero, et sponsa his peractis utantur ante coenam et prandium praemissa benedictione untia I. huius ellec. R. pistacchiorum, pineorum, Satyrion, palmae Christi, fenugreci an. unt. 1. radicis iringi, brioniae an dr. 2 pul. arthamisiae, bettonicae, hyperici, granorum paradisi, nepete cinamomi, gariopl. Macis an. dr. 1. galangae zodoariae an. scr. – pulverizentur omnia, et cum melle desp. fiat confectio aromatizanda cum muscho item theriacae, diamuschi, diastyr, an dra,. I. cum untia I. decoctionis hyperici bibatur. quod si addes dr. – pulveris virgae Tauri vigorosius operatur item R. Olei de lilio, castoreo an. un – nucis muscatae euforbii an. scr. 1 muschi, ambrae an. gr. 3 m. ugantur renes e Virga, et pertoneum ante caenam, laudatur fel corvinum cum balzamo, et confert etiam oleum nostrum, senibus, et frigidis. R. priapi tauri, erucae, piperis, gariofil, testiculorum vulpis, cinam, cardamo, an. un – caudae styngorum dr. 2 succh. alb. unt. – pulvis dosis dr. 2 cum vino. ↑ Torna al testo
[27] Cap. de partibus Saxoniae. ↑ Torna al testo
[28] Cap. ecclesiasticum. ↑ Torna al testo
II parte
[137]…I tipi che studio si dividono in inciarmatori, maghi e streghe. I primi, per riuscire nelle loro imprese, fingono ricorrere al regno dei Cieli, gli altri a quello degli dei infernali.
Inciarmatori
Di questi sfruttatori della medicina il beneventano ne possiede a dovizia, ed in ciascun paese ve ne sono di quelli che si reputano maestri di saper guarire, mediante i loro esorcismi, questo o quell’altro male. Abbiamo quindi specialisti per le coliche ventrali o del male del torciglione, per le febbri verminose, pei dolori di denti e per le coliche uterine o della brutta bestia.
In questa grande famiglia d’impostori sono incluse alcune donne dette occhiarole, cioè quelle che liberano dal malocchio, branca questa importantissima della medicina ciarlatanesca.
Al dire di alcune mamme, sono appunto queste donne, e non già i medici, che strappano le creaturine dalla falce della morte, ricevendo come [138] compenso dei loro esorcismi qualche misura di granone o qualche manata di legumi[1].
La manovra per liberare dal malocchio non è difficile, e noi, che abbiamo presenziato ad una di queste scene, la descriviamo a beneficio dei nostri lettori (vedi Tavola I, pag. 105).
L’occhiarola s’accosta al capezzale dell’infermo e, riempito che ha un piatto d’acqua, lo passa per tre volte sul capo del sofferente. Ordina poi di accendere una lucerna contenente olio di ulive e fa chiudere le finestre. Intanto, mentre colla sinistra mantiene il piatto, cala l’indice ed il medio della destra nell’olio della candela e ne fa cadere nell’acqua alquante gocciole. Se queste restano nel centro del piatto, di malocchio non dovrà parlarsene; ma se invece vanno alla periferia ovvero sembrano, a causa della luce, stare in fondo del tondino, il vaticinio è sfavorevole e si consiglia la madre dell’infermo di sospendere al collo dell’adocchiato la borsetta colla figura di S. Barbato o l’occhio di lupo incastrato in argento.
Mentre l’occhiarola trovasi in pieno esercizio delle sue funzioni borbotta fra i denti: Giesù, [139] Giesù, tu che hai potenza salvalo tu; ovvero recita tre Credi. La superstizione dètta che queste orazioni non si debbano ripetere più di tre volte.
Sono stato assicurato che i malevoli possono accogliere d’occhio anche le cose inanimate, e nel regno dei bruti non vien risparmiato il porco.
Raccomandiamo quindi a quelli che per ragione professionale o per altri motivi sono costretti a vivere nel beneventano di dire ad alta voce, se vedono un porco, San Martino; se s’imbattono in un bel bambino, Benedica, e se vanno in qualche casa dove si manifattura il pane, Criscenza, Criscenza; perché, se dopo la loro dipartita il bambino o il maiale andranno incontro a qualche malanno o la panificazione non riuscirà a meraviglia, allora si darà loro del jettatore e i componenti la famiglia, dove involontariamente apportarono desolazione e non provvidenza, saranno, per colpa di essi, costretti a mandare in cerca della specialista per togliere il malocchio[2].
[140]
Più avanzati in questi esorcismi sono gli uomini, i quali, a dispetto dei medici, si vedono onorati in casa dai sofferenti di dolori di denti: men- [141] tre si recano al domicili degl’infermi stessi allorquando l’hanno da fare con quelli affetti da coliche ventrali o della brutta-bestia.
Non mancano dei casi in cui i nostri inciarmatori sono invitati di andare in lontani paesi, [142] non escluso qualche capoluogo di provincia, come può rilevarsi da questo biglietto-invito proveniente da Benevento e diretto ad un cittadino di Guardia Sanframondi.
IBenevento 12 luglio 1897
[140] Più avanzati in questi esorcismi sono gli uomini, i quali, a dispetto dei medici, si vedono onorati in casa dai sofferenti di dolori di denti: men- [141] tre si recano al domicili degl’infermi stessi allorquando l’hanno da fare con quelli affetti da coliche ventrali o della brutta-bestia.
Non mancano dei casi in cui i nostri inciarmatori sono invitati di andare in lontani paesi, [142] non escluso qualche capoluogo di provincia, come può rilevarsi da questo biglietto-invito proveniente da Benevento e diretto ad un cittadino di Guardia Sanframondi.
Benevento 12 luglio 1897
Caro Francesco,
Quel vaccaio sta di nuovo ammalato e vi desidera tanto alla masseria che voi sapete. Vi raccomando di non trascurarlo perché siete desiderato da tanti e tanti altri.
Mastro Peppe vi prega di venire subito subito.
Vi saluto e sono
Giuseppe Danduono
[143] Finalmente mi piace riprodurre quest’altro documento che al certo, non farà buon sangue a qualche ufficiale sanitario.
Guardia 8 settembre 1891
Caro combà Pietro.
Aggio saputo da Nunziatella la figlia di Tomaso che la tua figlia Cungettella sta ammalata e che tu pe te luvà nu scrupolo dalla cuscienza la vuliva far osservare pure da me. Io non poso venire perché una muzzecatura de scarpa all’uosso pizzillo non mi pote far camminare. Io da quello che marracundato Nunziatella subbito aggio capito che figlieta tene la febbra verminosa. Chello che ti raccomando è di lassare tutte le medicine che ti scrive quel f… di medico; perché un’altra vota la figlia di combà Cosimo, pe se piglià certe pinnulille, se stava abbianno pe lo campo. Lassa tutte le medicine ed invece accaccia lerva che ti manno, fanne na pezzettella e ce la metti coppa al mellicuro e vedi che passa subito bona. Se po vuoi che io venisse allora mandami a piglià colla vettura.
Tuo combare
Filippo
[144] F. F. da Guardia Sanframondi, che due anni or sono fu denunziato al potere giudiziario, perché con olio canforato ed appropriato massaggio guariva i dolori articolai, mi giurò che è capace di mettere in fuga i vermini intestinali, se titillando sull’ombelico del sofferente si dice per tre volte:
- Giuvanne accanto al mare steva
E le sue pecorelle si guardav,
Na tavulella d’oro si faceva.
Lu pane sante se mangiava
E l’acqua santa si beveve
tutte le frisculelle (ragazze) c’invitava
Meno i vermi puzzolenti
Che sono schifati da tutte le genti.
Di tutti i giorni viene Natale,
Di giovedì viene l’Ascensione
Di domenica viene la Pasqua,
Ed i capi vermi in terra caschino
E quelli che hanno da nascere
Nu nasceno, nu nasceno, nu nasceno.
Antonino Ceniccola, alias Ciciariello, che è uno dei più intelligenti agricoltori di Guardia Sanframondi, mi disse che un componente della famiglia [145] Vasciacavilla per la ‘nciarmazione dei denti, metteva con molto profitto in pratica questi versi:
Verme verme valoroso
Puozzi perdere il tuo vigore
Come lo perdette Giuda traditore:
Libera N. N. da questa ‘nfermità,
Se piace alla SS. Trinità.
Ferdinando G. di Cusano Mutri invece mi assicurò che toccando il dente ammalato con una pagliuchella di grano mmesca o con una piccola rarichella di ramegna masculina e ripetendo per tre volte:
Femmina ‘ngrata, omo benigno
Sott’acqua e sotto ligno
Ha ditto Dio potente
Che se ne iesse lu male ‘e dente
la nevralgia dentaria scompare per incanto.
Mentre Cosimo N. di S. Lorenzo Maggiore preferisce, per le stesse sofferenze, dire: S. Pietro mentre in Gerusalemme stava si accorse che una donna piangeva e lacrimava e il Maestro voltosi al suo discepolo disse: Pietro, perché piange quella donna? Piange perché ha dolori di denti. Non è niente, rispose Gesù; perché per [146] farla guarire le basta questa benedizione: In nome del Padre + del Figliuolo + e dello Spirito Santo (Vedi tavola II a pag. 129).
Gaetano P. di Cerreto Sannita, che ha ereditato dal padre la ‘nciarmazione delle coliche ventrali, quando vien chiamato da quelli che si contorcono pel male del torciglione, come chiama dette coliche, suol dire: S. Giobbe mentre in un bosco stavi piangeva e lacrimava passò Gesù e gli disse: Giobbe, che hai? Signor mio, ho il male del torciglione che mi consuma il fegato ed il polmone. Non avere paura, disse il Maestro, perché adesso ti do la santa benedizione ed allontaneremo il male del torciglione. In nome del Padre + del Figliuolo + e dello Spirito Santo +
Filippo S. di Guardia Sanframondi e i suoi colleghi Futariello, Putaturo e Cosse ‘e ualle, allievi dei non abbastanza compianti fratelli Miezeruoto, quando vengono invitati per guarire il morbo della brutta-bestia, poggiano le mani sul monte di Venere delle loro clienti e borbottano: S. Cipriano disse all’utero: Quane arraggiato (cane arrabbiato), perché stai in questo corpo? Vi sto per consumare il petto e il reso del corpo. Cipriano, disse Gesù, tu farai la ‘nciarmazione ed io do la Santa benedizione. In nome del Padre + del Figliolo + e dello Spirito Santo+
[147] Dando uno sguardo ai libri di medicina antica troverà il lettore che i primi a curare le malattie con talismani e cose simili furono Ammone, Ermete e Zoroastro, le cui pratiche si usarono presso i Greci ai tempi d’Ippocrate e presso i Romani nell’età di Asclepiade.
Vogliono alcuni che pel mal caduco sieno stati, in quei remoti tempi, giovevoli questi versi:
Caspar fer mirrham, thus Melchior, Balthasar aurum.
Haec tria qui secum portabit nomina Regum
Solvitur a morbo, Christi pietate, caduco.
§
Per impedire il flusso di sangue, Viero[3] riporta la seguente poco chiara orazione:
In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, chunrat cara sarite confirma consana imaholite: item: Sepa+ Sepaga+ Sepagoga+ sta sangui consummatum in nomine Patris+ podendi+ et Filii-pandera et Spiritus Sancti+ pandorica+ pax tecum; Amen.
Il medico Marcello insegnò ai suoi contempo- [148] ranei che per guarire il dolore dell’ugola bastavano queste tre parole crisi, crasi, sincrasi.
Non è una vera guerra che faceva quel nostro collega agli specialisti di laringoiatria?
Gli specifici adunque dei nostri inciarmatori non sono che un avanzo della medicina divina del medio evo, e che in quei tempi alla scienza si preferisse la preghiera ce lo mostra il fatto che era comune credenza che la malattia provenisse o dal diavolo o da Dio. Nel primo caso, le forze umane con erano bastevoli per distruggerla; nel secondo volere impedire la malattia sarebbe stato un peccato. Se v’erano uomini che conoscevano i mezzi contro la malattia, questi uomini dovevano conoscere anche la sua origine, dovevano aver commercio colla forza che la cagionava; ma come i disegni di Dio non possono essere svelati dai mortali, il medico, il quale usava non della preghiera, ma dei medicinali, potette solamente rimediare al male proveniente dal diavolo coll’aiuto del diavolo che svelava a lui i segreti necessarii[4].
[149]
La medicina durante l’occupazione dei barbari era in Italia tenuta come un’arte abietta tanto che, durante l’occupazione dei Visigoti, passò addirittura nelle mani di ignobili speculatori e di uomini dediti ad ogni vizio. Il nome di medico era deriso e l’arte d’Esculapio dai dotti ed onesti passò nella schiera degl’impostori. Il volgo s’infatuò in grette superstizioni fino al punto di rispettare i giorni nefasti; ed i dies Aegyptiacae si segnalarono nei calendari dei tempi.
È vero che durante l’invasione barbarica furono emanati contro alcune superstizioni degli editti speciali[5]; però essi non venivano rispettati [150] dai vinti perché i vincitori non abbandonavano le loro usanze pagane e Rotario ce ne dié una chiara prova. Egli, mentre si professava cristiano, non lasciava di adorare una serpe d’oro.
Le operazioni nelle quali i nostri inciarmatori si dichiarano maestri sono non solo gli esorcismi per guarire i dolori di denti e le diverse coliche, perché, alcuni di essi, portano anche il primato di saper diagnosticare e di applicare la terapia [151] ad altri malanni. Ecco una parte di formulario terapeutico ricavato dalla clinica di questi nostri esaminati.
- Scazzimma (blefarite ciliare). Lavare gli occhi dell’infermo con acqua di pozzo di campagna.
- Formelle (cateratta). Strofinare sulla cornea di chi è affetto da cateratta fiele di gallo bianco sciolto in tre tazzoline di aceto bianco.
- Affrusione (congiuntivite). Passare, per tre volte, sulle palpebre dell’infermo un anello di oro nel quale sia incastrata la corniola.
- Ciammuorio (corizza). Far pervenire nelle cavità nasali del sofferente del fumo di paglia di grano.
- Quatarro di Pietto (bronchite). Bruciare stoppa ed unghie di cavallo ed applicare sul petto dell’ammalato la cenere che si ottiene dalla detta combustione.
- Purmonite (polmonite). Dar da mangiare all’infermo il cuore di tasciola (tasso).
- Vriccelle cadute (pleurite). Mettere sulla parte dolente del pleuritico un cataplasma di ortiche cotte.
- ‘Nolarchia (itterizia). Far bere al sofferente decotto di ceci neri frammisto a polvere di mattoni vecchi.
- Vermini intestinali. Applicare sulla regione ombelicale del mentastro pesto.
- Sciatica. Mettere sulla parte dolorifica l’erba di souce muzzillo (?)
- Ferite. Coprire la lesione con una pezzuola bagnata in olio di scorpione.
- Raggia (Rabbia). Mettere sulla parte sanguinante i peli dello stesso cane.
- Deficienza di latte. Sospendere al collo della donna che da il latte un corallo di agata.
- Dentizione difficile. Circuire il polso del bambino con una coroncina di vetro cilestrino.
- Eczema. Far pervenire sulla parte malata delle scintille di fuoco ricavate dalla pietra focaia e da un pezzo di acciaio.
- Dolori articolari. Circuire il collo del piede dell’infermo con un avanzo di rete da pescatore.
- Porri. Strofinare la parte con schiuma di ciammarruche (lumache).
- Mal di luna (epilessia). Punzecchiare l’ammalato durante le convulsioni in modo da cacciargli un mezzo rotolo di… sangue.
Il lettore poi che vorrà imparare altri specifici è pregato dare uno sguardo ai vecchi libri [153] di medicina, dai quali i nostri inciarmatori hanno appreso non poco.
Si legge infatti che la schiuma delle ossa del capo umano fu trovata efficacissima per le emorragie nasali (Boile); che la radice di peonea sospesa al collo dei fanciulli li liberava dal mal caduco (Galeno); che la polvere di rospo racchiusa in una borsetta e tenuta sulla propria persona valeva contro la peste (Galeno); che contro l’epilessia Castrodo trovò utile un pochettino di osso di uno dei piedi della gran bestia e lo stesso autore raccomanda per le febbri le erbe dette piedi di gallo, colle quali si debbano circuire i polsi.
Senza occuparmi degli altri specifici che si trovano scritti nel capitolo III del trigesimo libro della Storia Naturale di Plinio Caio Secondo, riferisco solo che l’emeranda conserva la vista e che l’agata ferma il sangue «perché queste cose portate addosso,s’insinuano colla loro efficacia (sono parole del Castrodo[6] nella massa del sangue per li vasi capillari, di cui la pelle è ripiena, cacciando in conseguenza per la traspirazione insensibile la materia mortifica, che si ritrova nella parte più sottile del sangue».
[154]
Le streghe
«Le streghe vecchie, quanto il mondo e i giovani come il mattino, il volto scabro di rughe o rorido di freschezza, le streghe si annidarono sempre, fantasmi paurosi o visioni geniali nell’immaginazione degli uomini e, meglio assai, in quella delle donne.
Cacciate dalla storia, riapparvero nella leggenda; espulse dalle classi colte, si rifugiarono in mezzo al popolo, che le raccolse e le strinse a sé come cosa tutta sua, e le tenne sempre come elemento della sua vita interiore. Le immagini degli stregoni e delle streghe si presentano, sotto varii nomi e con diverso aspetto, in tutti i tempi, presso tutti i popoli, siccome quelle di cui la civiltà non ha mai potuto trionfare; si presentano balde, ribelli, fugaci, col solito apparato di salti, di grida di fischi, di lazzi d’ogni specie, pronte a dare un tonfo nell’abisso o ad elevarsi sino alle nubi, a cambiarsi in mostri cornuti, del pari che a sciogliersi e svanire in una nuvoletta rosata… Esse vanno pel mondo a colpire i rei nell’ora del trionfo, a soccorrere gli oppressi in quella della prova, vanno a prevenire, a punire, a spargere terrore e prodigi, ricche di tesori senza fine, bizzarre, insidiose, [155] munifiche, con una certa artistica tendenza allo scherno; capaci di forar bastoni, spezzar catene, pronte a troncar la vita di un uomo con un’occhiata bieca, come a restituirgliela con un sorriso»[7].
Di queste distinte signore, ciascun comune del beneventano ne possiede un certo numero e le chiama janare. Nella gerarchia satanica si di- [156] stinguono in janare che legano ed in quelle che sciolgono, vale a dire in streghe che fatturano ed in quelle che liberano dai malefici.
Chi viene stregato, per lo più, deve morire e la morte avviene ‘mpilo, ‘mpilo cioè lentamente. Le janare che sciolgono hanno per protettori gli Azoff, quelle che legano i Buzoff. Spesso succede che la potenza di sciogliere viene meno e la janara vi dice: Non c’è da fare. Qualcuna però si regola come quel tal medico, il quale, per far cadere in discredito il proprio collega, diceva in quelle famiglie dove veniva chiamato per consulto: L’avrei salvato, se mi aveste chiamato a tempo!!!
Non c’è che fare. È sempre quella maledetta lotta per l’esistenza che viene in campo!
Nei comuni del beneventano il popolino cerca tenersi amiche le janare e ciò vien fatto per non vedersi storti i bambini.
Corre anche voce che per esporsi al concorso delle streghe bisogna dimostrare che si nacque nella notte di Natale, perché si assicura che chi nasce in detta notte si trasforma o in janara, o in lupo o in quane (cane).
Fino all’età di sette anni i bambini nati nella [157] notte anzidetta non acquistano il magico potere: bisogna, se si vogliono tener lontani dalla stregoneria, che i genitori sorveglino il fanciullo nella notte in cui egli compie il suo settimo anno; perché è allora soltanto che le streghe lo chiamano. Se alla voce che grida, dice S. Bonaventura, Vieni, Alzati il bimbo risponde, egli è preso; se invece la madre, vegliando appositamente, risponde alle streghe prima che il figliuolo si desti, questo è salvo.
Le nostre streghe per rendersi leggiere come piume e per assottigliarsi in modo da poter passare pel buco della toppa si ungono con un olio misterioso che la notte di ciascun venerdì si prepara in una grossa caldaia presso il noce di Benevento sotto l’autorevole direzione del chimico Caronte che, secondo le nostre maliarde, è il diavolo più brutto da esse conosciuto. Io non sono riuscito ad avere una istantanea di questo barcaiolo delle bolge infernali; però Andrea Perruccio nel III canto dell’Agnano zeffonnato così lo dipinge:
Caronte avia la faccia proprio d’Uorco,
Senza capille e avia lo scartiello;
[158] Ha pe’ mostacce setole pe porco,
Co’ l’uocchie de scazzimma a zennariello;
E tutto vavejato e tutto sporco
Ha ‘no vestito po’, ch’è tanto bello,
Ch’appennere nce pote lo zefierno
Tutte le fusa, che stanno a lo ‘Nfierno.
Le fusa, dico, che tene la Parca,
Che sta felanno a l’uommene le bite.
E il divin poeta, che fece la conoscenza di questo demone quando da esso fu sbarcato Su la trista riviera d’Archeronte non ebbe di lui, tanto per l’aspetto che per la voce e pel modo come trattava i suoi passeggeri, gradevole impressione perché di esso così favella:
Ed ecco verso noi venir per nave
Un vecchio bianco per antico pelo,
Gridando: Guai a voi, anime prave:
Non isperate mai veder lo cielo:
I’ vegno per menarvi all’altra riva
Nelle tenebre eterne in caldo e ‘n gielo.
E tu che se’ costì anima viva,
Partiti da cotesti che son morti.
Ma poich’e’ vide, che non mi partiva,
Disse: per altre vie, per altri porti
Verrai a piaggia, non qui per passare:
Più lieve legno convien che ti porti.
E ‘l duca a lui: Caron, non ti crucciare:
Vuolsi così colà, dove si puote
Ciò che si vuole, e più non dimandare.
Quinci fur quete le lanose gote
Al nocchier della livida palude,
Che ‘ntorno agli occhi avea di fiamme ruote.
[159] Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
Cangiar colore, e dibattero i denti.
Ratto che inteser le parole crude.
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
L’umana spezie, il luogo il tempo e ‘l seme
Di lor semenza, e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
Forte piangendo, alla riva malvagia,
Ch’attende ciascun uom, che Dio non teme.
Caron demonio con occhi di bragia,
Loro accennando tutte le raccoglie:
Batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie,
L’una appresso dell’altra, infin che ‘l ramo
Rende alla terra tutte le sue spoglie;
Un’ammalata di mente, che vantasi essere la prima strega del beneventano, mi disse che il famoso unguento è formato di potra d’olio nella quale si fanno bollire una lucertola a due code, un vuotto (rospo), una mozzaforbice (forbicina), un cuore di gatta nata nella notte di S. Giovanni ed un pezzo di cordone ombelicale appartenente a bambina che venne al mondo nella notte di S. Pietro.
Questo linimento pare abbia subito delle modifiche perché Martin del Rio(8) seppe da D. Pietro [160] Orano, il quale negli anni 1597 e 1598 sedette inquisitore e giudice nella causa delle streghe e delle maliarde di Stavelo, che la verga suol ungersi con un unguento fatto di materie insulsissime.
Invece Antonio Crespi, che fu anche giudice in cause di streghe e che per ammannire pene a dette infelici non si mostrava secondo a D. Pietro Orano, lasciò scritto che l’unguento magico si componeva di grasso di fanciulli ammazzati o morti di morte violenta frammisto a grasso di lupo e a latte di asina.
La farmacopea delle streghe tirolesi preparava il linimento in parola nel seguente modo:
« Si piglia dell’Eucarestia, del sangue di creaturine piccole, dell’acqua santa, del grasso di bambini morti e mescolando tutto insieme vi si pronunziano sopra le parole della maledizione ».
Lo Spenger, dice Stefanoni nel suo capolavoro « L’ignoranza ecclesiastica » semplifica la cosa e fa conoscere che per far volare in aria le streghe basta uccidere un bambino che abbia ricevuto il battesimo.
Talvolta le streghe non si ungono il bastone, ma le coscie o altre parti del loro corpo.
Qualcuno crede che la prima volta basti farsi prestare di cotesto unto, ma poi debbano prepararselo da sé coll’infanticidio(9).
Note
[1] Questo compenso di generi alimentari, in alcuni paesi del beneventano, è superiore a ciò che vien dato ai medici.↑ Torna al testo
[2] Dai rimeii, dai brevi e dagli statuti degli antichi tempi rilevasi che quasi in tutti i paesi si credette alla jettatura. Infatti se gli Egizii si facevano dipingere sul petto il phallum si era perché essi credevano al malocchio. Plutarco ci assicura che egli non trovò più pace da quando Eutelida glie la jettò e Cicerone (De Clar. Orat.) scrisse che Curione restò senza parola quando doveva perorare contro la iettatrice Titinnia.Varrone (De L. L. lib. 6), Pindaro (Pyth. XI), Teocrito (Idyll. 6 ver. 39) l’ammisero pure. Catullo (Ad Lesb. VII) e Virgilio (Ecl. 7) vi prestarono credenza e Fracastoro (De sympathia et antipatia) opinò che chi è lodato volta la faccia, non per mostrare la sua modestia, ma per guardarsi dalla jettatura. Iacopo Sannazaro (Arc. Pros. 3 Ecl. 3); Celio Rodigino (Ant. Lect. XXX 22), Erasmo (Coll. Proc. et Puellae) e più di tutti Geronimo Vida (Lib. bomyc.) descrissero a meraviglia il jettatore; e lo stesso S. Paolo (Ad. Galat. 3 v. 1) non avrebbe detto: Quis vos fascinavit non obbedire veritati? se non avesse creduto al malocchio. Nei tempi antichi erano ritenute come jettatrici alcune donne della Scozia e quelle di Rodi che avevano doppia pupilla.
Oculis quoque pupilla duplex fulminat
Et geminum lumen in orbe manet.
E poi chi non sa quel verso di Virgilio
Nescio quis teneros oculis mihi fascinat agnos?
I romani, che fin ab antico hanno portato il vanto d’essere della gente pratica, pensarono formulare delle leggi contro i signori jettatori ed infatti leggiamo nelle XII tavole:
Qui malu carmen indicantasit, malum venenum faxit duitve paricidia esto; ed in altro luogo:Qui fruges excantasit (Mirabelli A. Storia del pensiero romano da Romolo a Costantino vol. 1).
Quelli poi che hanno portato e portano tuttavia il vanto di essere jettatori sono monaci. Landulfo vescovo di Capua, che visse, secondo il Muratori (Rerum Ital. scr. Tom. 2), nell’842, solea dire: Quotiens monachum visu cerno, sempre mihi futura dies auspicia tristia subministrat. I siciliano tennero per jettatore Francesco II di casa Borbone e di lui ancora dicono:
Iddu nasciu, la matre muriu.
Iddu spusaiu, lu patre crepaiu.
I preservativi che oggi si adoperano contro la jettatura, cioè i cornetti, i gobbetti, il trifoglio, il ferro di cavallo, il fiore delle alpi ecc. hanno sostituito la figura di Priapo, che nei tempi andati fu creduto lo specifico del malocchio. Plinio nel parlare di quello sconcio arnese, che vediamo raffigurato financo nelle catacombe di S. Gennaro, dice: Et fascinus Imperatorum quoque, non solum infantium custos, qui Deus inter sacra Romana e Vestalibus colitur et currus Triumphantium sub his pendens, descendit, medicus invidiae. Riscontra pure Valletta N. (Cicalata sul fascino volgarmente detto Jettatura Napoli 1787). L’imperatore Caracolla, sul declinare dell’impero, vietò, con pubblico editto, l’uso degli amuleti perché si convinse che man mano che si accresceva la superstizione diminuiva l’energia del popolo.Dal paganesimo e dal giudaismo l’uso, degli amuleti passò nel cristianesimo nonostante le invettive di S. Giovanni Crisostomo e di altri padri. Quanto rapidamente si diffondesse si può argomentare dal fatto che il sinodo di Laodicea minacciò nel IV secolo l’interdetto ai sacerdoti che portavano amuleti, i quali furono poi generalmente vietati nel 721 a Roma da Gregorio II, indi a Costantinopoli e a Tours (Strafforello G. Errori e pregiudizi Milano 1883).↑ Torna al testo
[3] De curatione, p. 176.↑ Torna al testo
[4] Molti fatti attestano che un simile ragionamento fu in vigore nella prima metà del secolo XVI. Ne diamo un esempio. Nel 1521, in Amburgo il medico Weites morì sul rogo per aver fatto una meravigliosa operazione ad una ammalata (Paulowic’).↑ Torna al testo
[5] Avendo a pag. 12 e 13 riportato gli editti di Rotario, crediamo riprodurre anche quelli ricavati dalle leggi gotiche e dai capitolari di Carlo e di Ludovico riguardanti gli augurii ed i malefici. Nella III legge gotica, dal titolo De malefici set consulentibus cos sta scritto: Malefici et immissores tempestatum, qui quibusdam incantationibus grandinem in vineas messeque mittere prohibentur, et hi qui per invocationem daemonum mentes hominum conturbant, seu qui nocturna daemonibus celebrant, eosque per invocationes nefarias nequiter invocant: ubicumque a sudice vel actore, vel procuratore loci reperti fuerint vel detesti, ducentenis flagellis publice verberentur, et decogantur inviti, ut eorum alii corrigantur exemplis.
Legge LXIV del Capitolare di Carlo e di Ludovico sugli Auguri.
Habemus in lege Domini mandatum: Non auguramini Et in Deuteronomio: Nemo sit qui ariolos suscitetur, vel somnia observet, vel ad auguria intendat. Item: Nemo sit maleficus, nec incantator nec Pythonis consultor. Ideo praecipimus, ut nec caucolatores, et incantatores, nec tempestarii, vel obligatores fiant; et ubicumque sunt, emendentur, vel damnentur. Item de arboribus, vel petris, vel fontibus, ubi aliqui stulti luminaria, vel alias obserbationes faciunt, omnino mandamus, ut iste pessimus usus, et Deo execrabilis, ubicumque invenitur, tollatur et destruatur. (De Renzi S. Storia documentata della Scuola medica di Salerno, Napoli 1857).↑ Torna al testo
[6] Dell’Istoria critica de’ segni c. 1 es. 4. ↑ Torna al testo
[7] Rossi-Gasti m.c.↑ Torna al testo
Disquisitionum magicarum, etc.↑ Torna al testo
Il demonio, dice il Del Rio, le potrebbe trasportare senza l’uso dell’unguento, e talora il fece, ma per varie cause ama meglio servirsi dell’unguento, talvolta perché le streghe sono troppo timide per ardire; e perché troppo tenere a sostenere l’orribile contatto del corpo assunto da Satanasso, imperciocché l’unzione ne stupisce i sensi e fa credere alle misere aver quell’unguento una forza meravigliosa. O lo fa per offendere i santi sacramenti istituiti da Dio. Dal Cantù o. c.↑ Torna al testo